Solitudini e fragilità sociale: lezioni dall’estate del 2003

approfondimento

 


Articolo tratto dal N. 44 di Le diseguaglianze (non) vanno in vacanza Immagine copertina della newsletter

Era l’estate di 22 anni fa. Passò alla storia come l’estate della Grande Ondata di Calore, la cosiddetta heat wave. Le temperature superarono i 40 gradi per diversi giorni in mezza Europa e, unite ad una prolungata siccità, crearono vari danni economici ed energetici, oltre ad un grave allarme sanitario. Dai primi di agosto i quotidiani annunciarono un aumento preoccupante dei decessi, soprattutto nelle aree urbane.

Solo alla fine del mese, dopo diverse settimane di agonia, le temperature calarono e tutto rientrò nella normalità. Era stata un’emergenza metereologica, non si sarebbe ripetuta facilmente, pensarono i più. Due anni dopo, l’Istat pubblicò le statistiche sulla mortalità del trimestre estivo del 2003 e alcuni scoprirono, nell’indifferenza generale, che l’ondata era costata ben 20 mila morti in eccesso, e non le poche migliaia dichiarate a suo tempo dalle autorità sanitarie nazionali.  

Oggi, a distanza di ormai 20 anni, ogni estate qualcuno dice che forse, sulla spinta di un cambiamento climatico globale, potremmo superare le temperature record del 2003. Come se fosse una corsa al Guiness dei primati, e non la promessa di tanti, troppi, eventi nefasti. 

La doppia sfida oltre la crisi climatica 

Perché ricordare oggi quegli eventi? Perché, pur nella sua eccezionalità climatica, l’ondata del 2003 squarciò il velo della nostra ignoranza e ci mostrò quanto fossimo impreparati di fronte alla doppia sfida che avevamo di fronte, e che ancora oggi e negli anni futuri incomberà su di noi: la transizione demografica e quella climatica. Aumentano le persone anziane sole da un lato, a causa dell’invecchiamento della popolazione e dei cambiamenti nelle relazioni familiari, e aumentano i disagi climatici connessi al riscaldamento globale dall’altro.  

Quando le due transizioni si combinano insieme, come accadde nel lontano 2003 e ormai in modo più ricorrente negli ultimi anni, scopriamo l’inevitabile: che le vittime principali delle ondate di calore si concentrano soprattutto nelle grandi metropoli e sono in gran parte persone molto anziane, in condizioni di fragilità fisica e psichica, e quasi irrimediabilmente isolate e sole. Isolate perché i partner – quando c’erano – sono già deceduti; perché i figli spesso non ci sono – aumentano esponenzialmente gli anziani childless, ovvero senza figli – e se ci sono, sono comunque pochi a causa della caduta della natalità che ci accompagna ormai da decenni, e spesso abitano lontani o sono occupati; perché le reti sociali del vicinato e del quartiere sono fortemente indebolite dalle tensioni immobiliari, che espellono i ceti popolari dai luoghi di vita abitati per decenni, se non per generazioni. È la miscela di età, solitudine, fragilità fisica, riscaldamento globale a rendere vulnerabili queste persone. Mentre la debolezza del sistema territoriale dei servizi sociali e sanitari concorre a moltiplicare questo rischio, perché mancano i tracciamenti, le visite domiciliari, i contatti a distanza: quel sistema di sentinelle che molti paesi simili al nostro hanno allestito per prevenire i peggiori esiti delle ondate di calore. 

Ma torniamo alla crisi del 2003 e vediamo come rispondemmo a quella emergenza. Nei mesi successivi, sull’onda emotiva degli eventi, fu effettuata un’indagine da parte dell’Istituto Superiore di Sanità, che concluse che i morti erano concentrati nelle grandi città del Nord Ovest e a L’Aquila (“che abitualmente gode di clima fresco”): in luoghi dove le temperature furono più elevate a causa dell’edificato, e nell’area occidentale del paese, dove “il clima è solitamente temperato e fresco”. Insomma: nulla di eclatante, ma un fatto essenzialmente metereologico, senza chiare responsabilità né l’esigenza di approntare un piano nazionale di emergenza. Ci si limitò ad inoltrare raccomandazioni di buon senso: stare al fresco, bere sopra la norma, non lasciare soli i propri anziani, non camminare per strada nelle ore centrali della giornata, evitare grandi scorpacciate, e così via. E si lanciarono blande indicazioni alle amministrazioni comunali: attivare il volontariato, mobilitare gli ospedali, censire gli utenti dei servizi attraverso la sensibilizzazione dei medici di base, e via dicendo.  

In altri paesi europei, come Francia e Germania, la reazione fu diversa. Non solo questi paesi approntarono un piano nazionale di emergenza, ma l’azione si innestò su programmi e servizi territoriali distribuiti in modo capillare nei territori urbani, soprattutto nelle aree a maggiore densità di anziani. L’ondata di calore, se possibile, aveva avuto infatti un merito: aveva segnalato che la vulnerabilità non dipendeva soltanto dalle condizioni di salute e dall’età, ma anche dalla solitudine, dalla condizione abitativa, dalla mancanza di informazione e di assistenza medica. Aspetti non così fatali ed eccezionali come i primi, la cui portata poteva essere ridotta attraverso piani territoriali, servizi di ascolto e di counselling, accurati piani di monitoraggio e prevenzione. 

Una città della cura 

Da alcuni anni, le nostre estati assomigliano sempre di più a quella del 2003. L’ondata di calore è stata sostituita da condizioni metereologiche spesso difficili, che si protraggono per settimane e mesi interi. La transizione demografica sta inoltre compiendo il suo corso, moltiplicando il numero di persone molto anziane e fragili, che spesso vivono da sole, sia nelle aree interne che nelle grandi città del nostro paese. La loro vulnerabilità alle ondate di calore è la punta dell’iceberg di una condizione di vita difficile, segnata da scarse relazioni sociali e familiari, risorse economiche e condizioni abitative appena sufficienti, mobilità nel territorio difficile se non impossibile, impossibilità a pagarsi o ad organizzarsi una vacanza.  

Nelle città infuocate dal clima estivo, abitate prevalentemente da lavoratori a basso-medio reddito (di cui molti immigrati) e da turisti, questi anziani costituiscono il gruppo di popolazione più invisibile e dimenticato, salvo che, in anni eccezionali, compaia numeroso nelle statistiche della “mortalità per eccesso”.

Servirebbe una città “Age-friendly”, come le chiama l’OMS, capace di integrare più e meglio questa popolazione vulnerabile. Servirebbe per tutto l’anno e non solo per l’estate, quando più facilmente gli altri cittadini li dimenticano. 

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