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«Da oggi ognuno è più libero» Titolo in eng


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Il 5 dicembre 1963, dopo una lunga preparazione ed estenuanti trattative, si formò, presieduto da Aldo Moro, il primo governo “organico” di centro-sinistra, con la diretta partecipazione di ministri socialisti (Nenni vicepresidente del Consiglio, Giolitti al Bilancio, Pieraccini ai Lavori Pubblici, Mancini alla Sanità, Corona al Turismo e Arnaudi alla Ricerca scientifica, ministero istituito in questa occasione).

Le tre direttive

Il giorno dopo il quotidiano del partito, “Avanti!”, sotto il grande titolo (opera del vice-direttore Franco Gerardi) Da oggi ognuno è più libero, riportava una lunga dichiarazione di Nenni, con cui si cercava di chiarire le motivazioni della partecipazione socialista (concorrere al consolidamento delle istituzioni democratiche e repubblicane; superare le difficoltà economiche e finanziarie) attraverso l’attuazione di tre direttive:

1) l’attuazione integrale della Costituzione

2) l’avvio di una organica programmazione economica

3) l’esecuzione quanto più possibile rapida delle riforme contemplate nel programma della nuova maggioranza, tra le quali venivano indicate l’ordinamento regionale, la legge urbanistica, il potenziamento della scuola e della ricerca scientifica e tecnologica, la democratizzazione dell’apparato amministrativo dello Stato, la riforma tributaria e delle pensioni.

«Non sarà l’opera di un giorno», aggiungeva il leader socialista, forse consapevole della somma di difficoltà che il nuovo governo avrebbe dovuto affrontare e che avrebbero portato alla sua prima e significativa crisi, nel giugno-luglio 1964.

Processo irreversibile

In ogni caso, come ha scritto recentemente Paolo Pombeni (L’apertura. L’Italia e il centrosinistra 1953-1963, il Mulino, Bologna 2022), «l’apertura a sinistra si era realizzata e non si sarebbe più tornati indietro, anzi il tema di includere non solo nel perimetro costituzionale, ma nel sistema politico-sociale tutte le componenti per dare impulso alla democrazia italiana avrebbe continuato a costituire un elemento di confronto fino agli anni Novanta del secolo scorso» (pp. 245-6).

Ma è anche vero, come osserva lo stesso autore, che i nodi sarebbero venuti presto al pettine: «Gli elementi conservatori del quadro politico si erano nella loro maggioranza arresi alla ridefinizione ormai inevitabile degli equilibri, ma continuarono a lavorare perché il sistema non si ponesse più l’obiettivo di rivedere a fondo l’ossatura del sistema sociale con le sue allocazioni dei poteri» (p. 247).

I colpi della crisi

Lo “slancio riformatore” (che pure avrebbe consentito, nel corso di pochi anni, scuola media unica, nazionalizzazione dell’energia elettrica, liberalizzazione dell’accesso alle Università, Statuto dei lavoratori, istituzione delle Regioni, riforma sanitaria) si ridimensionò quindi rapidamente, anche sotto i colpi della crisi della primavera-estate 1964: «In definitiva, l’apertura a sinistra non era riuscita ad andare al di là della razionalizzazione di un sistema politico che per non far scoppiare le tensioni indotte da un significativo mutamento storico doveva dotarsi di un nuovo quadro di riferimento compatibile con esso» (p. 251).

Anche perché se nel socialismo italiano (giunto peraltro al governo estenuato da lunghi anni di contrasti interni, che sfociarono, nel gennaio 1964, nella scissione che diede vita al Psiup) si faceva strada, sia pure a fatica e con molti limiti, una “cultura delle riforme”, essa però si trovò di fronte, oltre all’ostilità del PCI e alle resistenze dei settori conservatori della DC e di alcuni apparati dello Stato, anche mutamenti strutturali nella stessa composizione della società o, perlomeno, nel ruolo e nelle aspirazioni dei vari ceti sociali.

Primo tra tutti quello che Luciano Cafagna, in un saggio del 1966, definì la Fine della “classe generale”, e cioè dell’idea, di derivazione marxiana, secondo cui la classe operaia sarebbe stata portatrice di interessi non particolari, ma “generali”. Secondo Cafagna, impegnato in quel periodo nell’attività del Centro studi socialisti, il presunto carattere generalistico degli interessi operai appariva «sempre più offuscato non solo dal consolidamento di combattivi interessi settoriali dei vari gruppi che compongono la classe, ma anche del manifestarsi sempre più evidente di un vero e proprio “particolarismo” operaio, cioè da una possente azione redistributiva» la cui logica non era coincidente di per sé con una logica dell’interesse generale.

Riconversione mancata

A ciò si aggiungeva l’evidenza sempre più manifesta del fallimento dell’esperienza del “socialismo reale” fondato sulla collettivizzazione integrale dei mezzi di produzione e la coscienza dell’esistenza, nel sistema capitalistico, di “contraddizioni” diverse da quelle analizzate da Marx e dal socialismo delle origini, come quella tra il carattere automatizzato che tendevano ad assumere i processi produttivi e il carattere non auto-controllato dello sviluppo generale della società.

Il pericolo individuato da Cafagna era quindi quello dell’ “arbitrio della tecnocrazia” o, più precisamente, della «contrapposizione dei due astratti princìpi della efficienza e della democrazia», di fronte al quale, a suo parere, il movimento socialista doveva compiere una vera e propria “riconversione” «dall’idea religiosa e dogmatica di “classe operaia” a una idea empirica e storicamente concreta, conservando almeno una parte sostanziale della carica di energie civili costituitasi nel lungo periodo del regno dogmatico».

La realtà

Cafagna proponeva quindi una rielaborazione dell’ideologia socialista fondata, a quel punto, non più sull’analisi dei rapporti di produzione e di classe (sottovalutandone, a mio parere, la persistenza, sia pure sotto forme diverse), ma piuttosto su quella «delle forme istituzionali con le quali la società deve adeguare se stessa a una realtà contrassegnata dal progresso tecnico, per promuoverlo e insieme controllarne il potenziale di potere che da esso si sprigiona», anticipando, in questo modo, la stagione dei dibattiti degli anni ’70 di cui fu uno dei protagonisti.

Nel breve periodo, però, la debolezza dei governi centro-sinistra, la crisi della politica di programmazione su cui il PSI aveva giocato buona parte delle proprie carte, il fallimento della riunificazione socialista, andavano rapidamente (e negativamente) intrecciandosi con il manifestarsi delle contraddizioni della società italiana, prima tra tutte il crescente distacco tra paese “reale” (o almeno alcuni suoi settori, spesso i più dinamici) e paese “legale”, destinato ad esplodere con la contestazione studentesca e l’”autunno caldo”. Come osservò amaramente alcuni anni più tardi, il 1 ottobre 1973, lo stesso Nenni «purtroppo il ritardo dello Stato rispetto alla società rimane la caratteristica di questa epoca».

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