Inclusività
Può succedere che nella frenesia di organizzare eventi e creare contenuti, non ci accorgiamo che le facce attorno alle tavole rotonde e dentro i palinsesti (televisivi soprattutto) siano più o meno sempre le stesse: che cioè nel discutere di inclusività si finisca per escludere il pensiero controverso, quello (il pensiero) che vorrebbe segmentare la partecipazione, quello (il pensiero) che si confina dentro spazi impermeabili, che aspira a proiezioni microlocali e vive di attitudini claniche, tutti elementi che fanno parte del dna del nostro paese.
Allora, un primo passo verso la reale inclusione è accogliere il fatto che il valore della partecipazione non è intrinsecamente universale, che cioè esistono sacche di popolazione per cui democrazia partecipativa e dialogo non costituiscono necessariamente delle conquiste da difendere.
Il primo sforzo di inclusività dovrebbe quindi essere rivolto esattamente a chi è refrattario all’interlocuzione, per poter mostrare che esiste un’alternativa percorribile all’autarchia e all’autoreferenzialità, e che confronti intergenerazionali e trasversali non minacciano la nostra identità in termini di sicurezza: tutt’altro, la espandono, la potenziano.
Interrogativi
Ma dopo aver provato a sostanziare le fila dei difensori del valore dell’inclusività, restano questioni pratiche da dirimere: come si fa? Come si includono le persone? Da parte nostra, della cittadinanza tutta, occorre il massimo ascolto e il desiderio non negoziabile di essere messi al corrente delle sorti delle nostre affaticate democrazie.
L’allineamento spontaneo degli interessi e dei valori, nella forma dei movimenti, apporta miglioramenti indiscutibili alla vitalità di un sistema libero di rappresentanza, ma non può ingenuamente essere pensato come forma di coinvolgimento sufficiente: è compito precipuo dell’interlocutore politico porsi le domande giuste, relative all’inclusività, affidandosi a
esperti e practitioners del settore.
Per questa ragione, concludendo il percorso di webinars “We The People. The Rise of Citizens’Voice”, abbiamo cercato di raccogliere gli spunti e le suggestioni che ricercatori e facilitatori hanno potuto affinare attraverso anni di studi e organizzazione di occasioni di partecipazione. Con Diogo Vidal (CFS – Coimbra), Francesca Fazio (Avventura Urbana) e Andrea Felicetti (Università degli Studi di Padova), ci siamo chiesti se è sufficiente avere più donne dentro l’arena o usare </strong linguaggi inclusivi e schwa, o se forse non ci sono contaminazioni, sporcature di privilegio che non riusciamo a tracciare né come amministratori né come studiosi.
Mettersi in discussione
Alcune istituzioni, inclusa l’Unione Europea che ha stabilito un Competence Centre on Participatory and Deliberative Democracy – provano a organizzare consensi raggiungendo target di rappresentanza di varie comunità, ma con quale criterio stabiliscono chi sono i gruppi strutturalmente svantaggiati? Come si copre la lista potenzialmente infinita degli interessi che dovrebbero avere voce dentro una deliberazione che riguarda questioni pubbliche?
Aggiungiamo un livello di difficoltà: se siamo chiamati a co-operare nella definizione di linee guida di policy su temi di proiezione globale (pensiamo alla temperatura e al clima, che si sottraggono alle convenzioni della cittadinanza o delle alleanze euro-atlantiche), qual è la comunità di riferimento che dovrebbe essere inclusa? Se le nostre scelte impatteranno la foresta amazzonica, dovremmo avere qualche rappresentante delle comunità indigene?
Scendiamo ancora in questa scala di complessità, e chiediamoci: siamo veramente in grado di metterci nei panni degli altri? Se la stanza non è abbastanza grande persino per i cittadini di un singolo quartiere, dovremmo cominciare a pensare che è il mondo stesso la nostra arena deliberativa? In quel caso, l’assente per antonomasia, il soggetto del tutto incapace di parlare – nel senso dialogico-discorsivo tradizionale – sarebbe la natura stessa, che dei nostri perversi atteggiamenti produttivi patisce prima di chiunque altro essere.
Cosa fare
Infine, un ultimo sforzo immaginativo. A beneficio di chi vogliamo migliorare i nostri sistemi democratici? Gen Z, Millenial, sono tutte suddivisioni utili a rintracciare affinità, scontri, cambiamenti storici ereditati e generati, ma la principale discriminante è tra chi esiste oggi, e vive queste circostanze, e chi patirà le conseguenze delle nostre azioni e/o omissioni, cioè chi non c’è ancora. Gli assenti dalle arene deliberative sono anche i nostri figli e nipoti, e le figlie e le nipoti dei nostri vicini, di cui è nostra responsabilità civile e umanitaria, includere le sorti.
Ogni società struttura socio-culturalmente le proprie relazioni interne, tra gruppi e segmenti, e costruisce anche una propria narrazione rispetto all’ambiente naturale. Il punto di costruire arene deliberative e di confronto realmente inclusivo è poter apprendere che esiste una varietà – che forse soltanto i romanzi o le distopie possono mettere in atto – di modi di interpretare la propria vita come abitanti temporanei della terra e come cittadini sempre transeunti di questo assetto internazionale. Ed esiste una varietà di linguaggi con cui questa diversità si esprime, di cui le aspirazioni all’innovazione democratica deve farsi carico, sul piano teorico e sostanziale.
Se le istituzioni organizzano il ballo, noi possiamo e dobbiamo reclamare il nostro invito, ma farci carico di danzare anche in rappresentanza degli assenti involontari. E per questo, ci ricorda Lynn Hunt in Inventing Human Rights. A history, la lettura, la cultura e le arti rappresentano uno strumento imprescindibile, per allenarci all’empatia con tutti gli altri esseri, umani e non.