“La cultura tiene assieme le differenze: è necessario ripensarla come bene comune”

Un’intervista a Andrée Ruth Shammah


Articolo tratto dal N. 43 di Le mani sulla cultura Immagine copertina della newsletter

Negli uffici di via Vasari a Milano, la redazione di Pubblico ha incontrato Andrée Ruth Shammah, direttrice dello storico teatro Franco Parenti.  Ne è nato un dialogo sulla libertà artistica e su come il teatro oggi abbia la missione cruciale di combattere l’omologazione e fare comunità contro qualsiasi ingerenza. 

Il Teatro Franco Parenti è uno spazio di libertà creativa, l’ha rivendicato spesso. Come si difende questo spazio, considerando la situazione delle istituzioni culturali in Italia? 

Noi difendiamo lo spazio di libertà del Teatro Franco Parenti con i fatti e con i numeri. Riceviamo fondi dal Fondo Unico dello Spettacolo (FUS), seguendo criteri oggettivi: abbiamo il più alto numero di alzate di sipario, di dipendenti, di attività. Questo ci mette al riparo da interferenze politiche. Non siamo legati né alla sinistra né alla destra: è la storia di questo teatro, nato da voci libere come Franco Parenti, Giovanni Testori e me stessa, senza appartenenze ideologiche o rappresentanze ufficiali.

Non abbiamo mai avuto accessi privilegiati, ruoli o protezioni: ce la siamo sempre cavata con il riconoscimento della città, con la partecipazione del pubblico, con la solidità della nostra proposta culturale. I lavori di ristrutturazione sono stati finanziati da privati, non per guadagnare ma per servizio pubblico. È un modello unico, forse possibile solo a Milano: una città dove alcuni privati credono ancora nella cultura come bene comune. 

Come vede la situazione culturale italiana, allargando la lente?  

La cultura in Italia vive una fase difficile, perché è sempre più raro trovare figure che, con competenza e passione, si pongano le domande fondamentali: perché si fa teatro? Che ruolo ha un’istituzione culturale in una comunità? Invece di discutere nel merito, ci si divide in schieramenti, ci si chiede a chi appartiene chi viene nominato, più che cosa propone. Io credo nelle minoranze e penso che la cultura sia un esercizio di dubbio e contraddizione, un modo per tenere insieme differenze.

Oggi manca una narrazione che tenga conto del vissuto, del sociale, della memoria: si parla solo di innovazione, di grattacieli, ma si dimentica il tessuto vivo delle città, i bisogni veri. Innovazione e tradizione non sono in contrasto: vanno tenute insieme. E questo, più che una questione politica, è una questione culturale profonda. 

Come si trasforma un quartiere tenendo aperto un teatro come il Franco Parenti? Come si fa comunità?  

La cultura crea sicurezza e intrecci, permette di scoprire nuovi mondi. Così possiamo fare a meno della vigilanza, del controllo. Quando il Teatro Franco Parenti è aperto, la città si anima: la gente esce, le luci restano accese, il quartiere vive. Abbiamo cinque sale attive, con pubblici spesso molto diversi tra loro, ma tutti accomunati dal desiderio di partecipare. Più il teatro è vivo, più anche la strada si apre, più la sera si prolunga, più i ristoranti rimangono aperti. È così che un luogo culturale genera comunità: creando movimento, prossimità, relazioni.  

Uno dei luoghi che più amo del nostro teatro è il foyer. È lì che succedono le cose più sorprendenti. Ci sono serate in cui uno spettacolo comico richiama un certo pubblico, e un altro, magari più sperimentale, ne attira uno completamente diverso. Eppure, li vedi insieme, nello stesso spazio, che si ascoltano, si osservano, si parlano. È in quel momento che capisci cosa vuol dire davvero apertura: quando qualcuno, grazie a un incontro del tutto casuale, decide di esplorare un mondo che non avrebbe mai immaginato di abitare.

E questo per me è il cuore della proposta artistica: mischiare i pubblici, mischiare i linguaggi, ma sempre con un filo conduttore preciso. Uno spettacolo non si fa per sé, si fa per il pubblico. Che sia per ridere, per riflettere, per emozionarsi o anche per spiazzarsi. La sperimentazione fine a sé stessa, autoreferenziale, non mi interessa: se vuoi cercare una tua forma, fallo in un laboratorio. Ma quando chiami il pubblico a esserci, devi avere qualcosa da comunicare. E devi farlo in modo onesto, chiaro, generoso.

Il pubblico è intelligente, e se si sente accolto, partecipa. Noi abbiamo un pubblico raffinato, esigente, abituato a cogliere anche la sfumatura più sottile. E questo non è frutto del caso, ma di anni in cui abbiamo proposto spettacoli che chiedono attenzione e pensiero, senza mai alzare un muro, senza mai escludere nessuno.

Secondo lei quale messaggio deve trasmettere il teatro al suo pubblico?

In questo momento ho una vera ossessione per la complessità e per le contraddizioni, che poi sono il cuore stesso della cultura. Il teatro è uno degli ultimi luoghi dove posso ascoltare una posizione opposta alla mia e comprenderne le ragioni, senza sentirmi minacciata. È lo spazio dove si impara ad approfondire, a sospendere il giudizio, a non avere l’arroganza di sapere sempre cosa è giusto. E questo oggi è più che mai necessario, in un tempo dominato dai social, dal linguaggio semplificato, dalla polarizzazione violenta.

I teatri, oggi, hanno una missione cruciale: tenere vivo il dubbio, offrire strumenti per orientarsi nella complessità. Ricordo che durante il Covid, quando molti parlavano della fine del teatro e del passaggio definitivo al digitale, io sono stata tra le poche a dire con forza: non è vero. Il teatro tornerà, più forte di prima, perché le persone hanno bisogno di corpi vivi, di presenza, di relazione.

Lo dico spesso provocatoriamente: noi abbiamo una piscina e un teatro. La piscina è per la mente, uno spazio di pausa e di cura. Ma il corpo – il vero corpo – è quello dell’attore in scena, e dello spettatore che gli sta di fronte. In un’epoca in cui tutto è virtuale, astratto, filtrato, il teatro è uno dei pochi luoghi dove il corpo resiste, dove l’esperienza è reale, fisica, condivisa.

 

Quali sono le difficoltà economiche di gestire un luogo di cultura così importante per la comunità?  

 Ricordo un episodio che spiega bene lo spirito con cui affrontiamo le difficoltà, anche quelle economiche. Era il periodo in cui stavamo mettendo in scena La tempesta di Emilio Tadini, e il teatro letteralmente faceva acqua: pioveva dentro, soprattutto nella zona della scala d’ingresso. Tadini, con il suo spirito creativo, propose di trasformare il problema in scena con imbuti, fili di ferro, secchi che raccoglievano le gocce d’acqua come in un concerto. Mazzarella, che interpretava Prospero, indossava un casco coloniale per proteggersi dalla pioggia che cadeva sul trono. È stato uno dei momenti più poetici e disperati insieme.

Poi siamo stati costretti a chiudere per lavori: il teatro era pericolante. Nessuno ci ha aiutato. Ma dovevamo comunque fare attività, altrimenti avremmo perso i contributi. Così ho cercato uno spazio alternativo, e l’abbiamo trovato in via Cadolini, in vecchi magazzini che abbiamo trasformato in un nuovo teatro. Da quel gesto di emergenza è nato un polo creativo: oggi in quella zona ci sono studi di architettura, scuole di danza, luoghi vivi. Abbiamo rigenerato un pezzo di città, semplicemente perché dovevamo sopravvivere.

Gestire questo teatro significa assumersi rischi enormi, senza certezze economiche. Abbiamo fatto investimenti importanti – come la piscina – accendendo mutui che stiamo ancora pagando. Ma l’idea era questa: se costruivamo un luogo bello, curato in ogni dettaglio, avremmo potuto generare un’economia virtuosa. Non per guadagnare, ma per sostenere l’attività culturale senza perdere l’anima. Affittiamo spazi, organizziamo eventi, ma il teatro non si ferma mai: è sempre il cuore pulsante, chi entra qui partecipa a una storia. 

Di che cosa ha più paura riguardo alla sua attività artistica ma anche riguardo alla società, al mondo, a quello che sta succedendo?

Ho paura dell’omologazione. Del fatto che si smetta di riflettere davvero su ciò che si pensa, che si accetti passivamente tutto. Ho paura delle fake news, della confusione sistematica tra vero e falso, di un mondo dove la menzogna diventa struttura e verità al tempo stesso. In teatro, paradossalmente, il falso può essere più vero del vero – ma è proprio lì la differenza: nel riconoscere il confine tra verità poetica e manipolazione. E mi spaventa l’idea che si perda la capacità di ascoltare, perché quando smetti di ascoltare, smetti anche di credere nel futuro. 

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