Nelle ultime settimane, la nota del Ministro Valditara indirizzata all’Associazione Italiana Editori ha acceso una discussione che tocca il cuore dell’idea stessa di cultura in una democrazia. Il caso è noto: al centro c’è Trame del tempo. Dal Novecento a oggi (edizione rossa) (Laterza), un manuale scolastico accusato di offrire una visione “parziale e ideologica” della storia recente, “con giudizi fortemente critici nei confronti del centrodestra e del governo in carica”. Nessuna richiesta esplicita di ritiro. Nessun atto formale. Ma l’effetto – e forse l’intento – è quello di generare attenzione, sorveglianza, e quindi pressione.
Non serve la censura per ottenere il silenzio. Basta evocare un confine, indicare ciò che sta “oltre”, generare l’idea che certe letture o prospettive siano rischiose, o quanto meno controproducenti. In questo contesto, più segnato da allusioni che da divieti espliciti, si consolida un clima che favorisce l’autocensura. L’esercizio del pensiero critico non viene vietato, ma indirettamente scoraggiato; la cultura, invece di aprire spazi di confronto e discontinuità, rischia di rifugiarsi in una zona protetta fatta di prudenza e conformismo. Il controllo, allora, non si impone con atti autoritari, ma si diffonde per via indiretta, attraverso criteri, pressioni e segnali ambigui. E ciò che viene davvero messo a rischio non è tanto ciò che si afferma pubblicamente, quanto tutto ciò che si rinuncia a dire.
Un’idea di cultura “sotto pressione”
Questa pressione non riguarda solo la scuola o l’editoria ma più in generale il modo in cui la cultura è valutata, sostenuta, riconosciuta nello spazio pubblico.
Un segnale si è visto anche nella recente applicazione dei nuovi criteri ministeriali per l’assegnazione dei fondi allo spettacolo dal vivo (bando triennale Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo – Fnsv 2025-2027), che ha messo a rischio – o già escluso – realtà consolidate della scena contemporanea italiana, in particolare nei settori della danza, della performance e del teatro multidisciplinare. Alcune esperienze non andranno in scena, estromesse da un sistema di valutazione che privilegia parametri produttivi ed estetiche riconcilianti rispetto alla spinta critica e sperimentale. Non è un tecnicismo: è una scelta politica che tende a marginalizzare i linguaggi più sperimentali, meno facilmente assimilabili, spesso portatori di una critica implicita o esplicita all’ordine del discorso dominante.
Anche in questo caso, nessun divieto. Solo la definizione, burocratica e “neutrale”, di una griglia che orienta progressivamente il campo culturale verso forme meno disturbanti, più concilianti, più compatibili con un’idea di cultura addomesticata.
È qui che il rischio si fa più evidente: una cultura sotto pressione, in cui chi produce contenuti – siano essi manuali, spettacoli, libri o progetti educativi – si ritrova a dover calibrare ogni parola, ogni scelta, ogni gesto, nella paura di non essere ritenuto “neutrale”, “equilibrato”, “oggettivo”. Come se la cultura dovesse farsi invisibile per essere legittima. Come se il conflitto, che è da sempre uno dei suoi tratti vitali, fosse da rimuovere.
Un altro modo di abitare il presente
In questo scenario, è significativo che Santarcangelo Festival – che da cinquantacinque anni propone linguaggi performativi di ricerca e pratiche artistiche non addomesticabili – sia riuscito a svolgersi anche quest’anno, mettendo in scena un’idea di cultura come spazio radicalmente aperto, plurale, non addomesticabile. Le pratiche artistiche che vi hanno trovato residenza – negli spazi fatti diventare teatrali, nelle piazze, nei margini – ci hanno ricordato che esiste un altro modo di abitare il presente: un modo che non ha paura di prendere parola, di disturbare l’ordine simbolico, di restituire corpi e immaginari a una dimensione politica. In quei giorni, la cultura non era “servizio”, non era “decoro”, non era “racconto armonico”. Era tensione, desiderio, domanda.
E allora, cosa succede quando l’istituzione culturale – scuola, teatro, editoria – diventa un terreno dove si riscrive il passato per legittimare il presente? Quando la pluralità delle letture viene ridotta a “distorsione ideologica”? Quando si costruisce l’idea che esista una narrazione “giusta” della storia, e tutto il resto sia fazioso, divisivo, dannoso?
Succede che la cultura perde la sua funzione pubblica, che il pensiero critico viene delegittimato, e che il dissenso – ingrediente essenziale di ogni democrazia – viene lentamente spinto ai margini.
Oggi, più che mai, serve affermare che la cultura non è un esercizio di equidistanza. È un luogo in cui si prende posizione, si elaborano conflitti, si costruiscono letture alternative del mondo. Contrastare la pressione all’autocensura, riconoscere i tentativi di riscrittura selettiva della memoria, valorizzare le voci critiche e divergenti non è solo un compito intellettuale: è una responsabilità civile.
Difendere la cultura come spazio di libertà significa rifiutare che venga misurata sulla base della sua compatibilità con l’agenda di governo, con i rapporti di forza, con la retorica dell’oggettività. Significa rivendicare che la cultura possa essere anche parziale, sbilanciata, scomoda. Perché è proprio questo che la rende viva, e dunque necessaria.