Dalla repressione penale alla tecnologia:
la lunga mano del controllo sociale

 


Articolo tratto dal N. 42 di Sorvegliati e puniti Immagine copertina della newsletter

Le società contemporanee sono continuamente attraversate da emergenze (reali, presunte o costruite ad hoc) che legittimano interventi di rassicurazione sociale e l’uso ricorrente della parola “guerra” per affrontarle svela immediatamente la direttrice di fondo delle politiche pubbliche. Guerra al crimine, guerra alle droghe, guerra al terrore, guerra ai migranti, guerra al Covid, guerra alle baby-gang: al di qua e al di là dell’oceano, il paradigma della never ending war giustifica discorsi, decisioni e leggi che sbilanciano in modo rilevante l’equilibrio democratico tra autorità e libertà in nome di una sicurezza minacciata e da riaffermare con la forza.

Controllo e sorveglianza

La fantasia costitutiva degli Stati moderni attiene precisamente alla promessa di uscire dallo stato di guerra e di portare la pace sociale; per onorare questi impegni, sono state edificate le due impalcature istituzionali che ancora definiscono l’essenza della statualità: il sistema della giustizia penale e l’apparato di polizia. Al primo è affidato il potere di punire chi viola la legge, al secondo di vegliare al mantenimento dell’ordine pubblico, alla sicurezza dei cittadini, alla loro incolumità e alla tutela della proprietà.

La polizia moderna, in particolare, esercitando una continua vigilanza su tutto ciò che può avere influenza sulla vigenza dello Stato (jus supremae inspectionis), fin dall’età delle rivoluzioni ha svolto attività di sorveglianza degli anarchici, dei sovversivi, dei socialisti, degli oppositori politici, dei briganti, dei vagabondi e degli oziosi.

Questa capillarità nel controllo della popolazione “sospetta” e “pericolosa” è stata assicurata da soluzioni organizzative (tra cui, la presenza fisica in ogni centro abitato e sui confini nazionali e la tessitura di reti di informatori come gestori di locande, farmacisti, politici locali, parroci), e si è avvalsa anche di innovazioni tecnologiche sempre più capaci di identificare e schedare le persone: anzitutto la bio-antropometria utile all’identificazione delle persone, poi sostituita (ma non del tutto) dalle fotosegnalazioni e dalle impronte digitali.

Murale di denuncia sull'abuso di potere
Murale di denuncia sull’abuso di potere, artista anonimo

Stato di emergenza continuo 

L’esigenza di sorvegliare la popolazione permane anche nelle società democratiche e, soprattutto nelle fasi emergenziali, cresce a discapito o in deroga alle norme a salvaguardia dei diritti fondamentali.

Con riferimento all’Italia, un illustre storico del diritto, Mario Sbriccoli, alla fine degli anni Novanta individuò come carattere originario e tratto permanente dell’ordinamento giuridico proprio il ricorso a continui stati di emergenza a sostegno di leggi eccezionali di pubblica sicurezza tipiche dell’età liberale, rafforzate durante il Fascismo e vigenti ancora in età repubblicana.

A cavallo tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del Duemila, parimenti a quanto stava accadendo anche in altri Paesi europei, si pongono le basi per un salto di qualità nelle politiche del controllo. Basti pensare che, in base ai dati dell’Osservatorio sulla legislazione penale e della sicurezza che abbiamo inaugurato al Centro di Criminologia e Politiche Pubbliche dell’Università di Milano (crimepo.it), negli ultimi trent’anni ci sono state più di 1500 nuove leggi che aumentano la punitività e che le persone sottoposte a una qualche forma di controllo penale sono passate da meno di 40mila a circa 260mila.

Dal corteo No Expo a Milano
Dal corteo No Expo a Milano

2001: il cambio di passo sull’approccio repressivo

Il 2001 può essere considerato un anno significativo di questo cambio di passo. Da molti è ricordato soprattutto per i “fatti del G8 di Genova” di luglio, che hanno segnato un’intera generazione. Dopo gli anni della “pacificazione” delle proteste di piazza (che rimanevano problematiche per l’ordine pubblico solo in occasione di eventi sportivi) e di spinta alla professionalizzazione delle polizie, riscoprire la brutalità della forza dello Stato fu scandaloso ma non innescò una discussione pubblica.

Oggi, dopo quasi un quarto di secolo, non si può non vedere in quei fatti i prodromi di un approccio repressivo alla gestione del dissenso e di un’insofferenza, diffusa negli apparati di polizia, verso i controlli di legittimità.

Il 2001 è anche l’anno in cui venne approvato, prima delle elezioni che sancirono la sconfitta del centrosinistra di governo, il primo di quei “pacchetti sicurezza” che hanno segnato gli ultimi 25 anni di politica criminale: vennero introdotte misure per assicurare maggiore certezza della pena, accelerazione dei processi, ampliamento dei poteri di indagine della polizia, inasprimento della severità per reati definiti allarmanti, in particolare scippi e furti in appartamento. In tal modo, la strada viene tracciata: la sicurezza perde definitivamente il suo carattere di bene pubblico da garantire attraverso la tutela dei diritti costituzionali (sicurezza dei diritti) per diventare un diritto soggettivo (il diritto a non avere paura) che, agitato nel discorso politico a sostegno di campagne di allarme sociale, legittima progressivi incrementi di punitività.

Auto incendiata durante il G8 di Genova
Auto incendiata durante il G8 di Genova

Le big tech e i “Dati di scarto”  

Più in generale, soprattutto a seguito della promulgazione negli Stati Uniti del Patriot Act, anch’esso del 2001, lo stato di eccezione (cit. Giorgio Agamben) che legittima interventi straordinari in deroga a diritti fondamentali viene sdoganato come paradigma di governo anche delle società democratiche, mettendo in tensione la tenuta dei sistemi costituzionali.

D’altra parte, le nuove aziende della società dell’informazione, anche per via della de-regolamentazione nella sfera di protezione delle libertà e dei diritti fondamentali a fini di sicurezza nazionale, prendono consapevolezza dell’importanza di quella mole di dati comportamentali che precedentemente erano stati considerati come “dati di scarto” e che, appropriatamente trattati, sarebbero potuti diventare delle vere e proprie miniere non solo per tracciare e profilare, ma anche per prevedere e orientare il comportamento individuale e sociale (cit. come sottolinea Shoshana Zuboff).

Si è parlato molto, e giustamente, dei profili di privacy e della concentrazione monopolistica di aziende come Google, Facebook, Microsoft e Apple. Si è parlato un po’ meno della legittimità dell’estrazione ed elaborazione di dati comportamentali che afferiscono alla sfera della nostra esperienza personale di vita (cosa mangiamo, quando andiamo al parco, come guidiamo, che vino beviamo, quali farmaci compriamo, cosa diciamo a tavola e così via), per trarne profitto attraverso la profilazione a fini commerciali.

Si parla molto poco, quasi si trattasse di deviazioni occasionali dalla normalità, di come il governo dei dati comportamentali di scarto (sempre più disponibili grazie allo sviluppo di un internet diffuso) lungi dal rimanere ancorato al campo commerciale, incontri l’interesse delle agenzie di polizia e di intelligence, pubbliche e private, a utilizzare gli stessi dati per vigilare i comportamenti individuali e sociali in modo capillare e continuo, con una tecnologia che presenta delle potenzialità inimmaginabili per chi era abituato alla sorveglianza attuata attraverso il pattugliamento, la rete degli informatori e l’archiviazione delle impronte digitali.

Un episodio accaduto negli Stati Uniti, in una zona residenziale dell’Ohio, aiuta a riflettere sulle nuove tecnologie di sorveglianza. Un drone, utilizzato dalla polizia locale, ha ripreso due persone nel giardino di casa mentre lanciavano bottiglie vuote contro il dispositivo. L’immagine è stata poi pubblicata sui social dall’account ufficiale della città, accompagnata da questo messaggio: “Attenzione, residenti di […]. Smettete di lanciare bottiglie di birra contro i droni. Sono proprietà del Dipartimento di Polizia e sorvegliano le vostre case per proteggerle. Lo ripetiamo: SMETTETE DI ABBATTERE I NOSTRI DRONI ANTI-DROGA!”. Il tono del post stigmatizza il gesto dei cittadini, presentandolo come una forma di irresponsabilità che metterebbe a rischio la sicurezza collettiva.

Ma chi ha deciso che è possibile per un drone, anche se di proprietà del dipartimento di polizia, fare ciò che a un agente di polizia non sarebbe permesso, vale a dire sorvegliare la vita privata di cittadini all’interno della loro proprietà e in assenza di un mandato, come ordinaria attività di controllo?

Questa è una domanda che, in ragione della sicurezza, non siamo più abituati a porci ma che forse dovremmo ricominciare a mettere al centro delle nostre preoccupazioni di cittadini democratici.

Nuovi droni di spionaggio
Nuovi droni di spionaggio

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