Esistono sempre più zone di controllo, detenzione che si fondano sulla negazione del diritto a muoversi. Ma quali alternative economiche possono spezzare questa spirale repressiva?
Gaël Giraud – economista, matematico e teologo – propone una lettura diversa delle migrazioni: non minaccia, ma parte del ripensamento dei modelli di sviluppo, delle regole della finanza globale e della transizione ecologica.
Assistiamo al forte indebitamento dei paesi del Sud del mondo, che contribuisce all’aumento delle migrazioni.
Quale riforma delle regole finanziarie globali potrebbe contribuire a ridurre le cause delle migrazioni forzate e garantire più libertà di scelta alle popolazioni del Sud globale?
Dalla fine delle guerre coloniali i paesi del Sud sono stati costretti a finanziarsi sui mercati internazionali, cioè a prendere in prestito dalle istituzioni del Nord. Oggi la situazione è paradossale: il flusso di denaro che dal Sud va al Nord per il rimborso del debito è persino superiore a quello dei prestiti che il Nord concede al Sud. In altre parole, non è più il Nord a sostenere il Sud, ma il contrario: è il Sud che finanzia il Nord.
Non sorprende quindi che stia esplodendo una nuova crisi del debito, in particolare nell’Africa subsahariana. Alcuni paesi sono ormai in condizioni disperate: devastati dalle guerre, privi di risorse per ripagare i debiti, con Stati di fatto falliti. È per questo che papa Francesco ha chiesto la cancellazione dei debiti insostenibili, perché questi popoli non hanno alcuna possibilità di rimborsarli.
La soluzione passa da una riforma radicale: la cancellazione parziale dei debiti, ma in forme innovative. Una di queste è lo strumento dei debt-for-climate swaps, cioè scambi di debito per il clima. In pratica, una parte del debito viene annullata a condizione che il paese utilizzi le risorse liberate per investire in progetti ecologici e sostenibili. Ho scritto anche su questo nella Civiltà Cattolica, perché credo sia una strada molto promettente.
Già oggi diversi paesi, come il Sudafrica, chiedono esplicitamente di poter accedere a simili meccanismi.
Si tratta di strumenti virtuosi, che non solo alleggerirebbero il peso del debito, ma permetterebbero di avviare progetti di sviluppo sostenibile, utili sia sul piano ecologico che su quello sociale. Ed è proprio questo il punto: se un giovane africano vede che nel suo paese si creano posti di lavoro e possibilità di futuro, sarà meno spinto a migrare. Oggi invece, una parte consistente della gioventù africana sa già che non avrà né lavoro né mezzi di sussistenza, ed è per questo che sceglie di partire.
Molti flussi migratori futuri saranno generati dalla crisi climatica. Esiste un modo per pensare il diritto al movimento non come minaccia, ma come parte di una transizione ecologica ed economica più giusta?
Se si avviasse davvero un grande progetto come la Grande Muraglia Verde a sud del Sahara, si potrebbero creare centinaia di migliaia di posti di lavoro e produrre cibo sufficiente a ridurre l’insicurezza alimentare. In questo modo si affronterebbe direttamente una delle principali cause che spinge oggi i giovani africani a migrare. È un progetto di cui si discute da oltre quindici anni, sostenuto anche dalla Banca Mondiale, ma che fino ad ora è rimasto a uno stadio embrionale, troppo limitato per incidere davvero.
Il problema è che la comunità internazionale non lo ha mai preso sul serio. Eppure sappiamo che nel Sahara c’è una quantità immensa di acqua sotterranea: 13.000 anni fa era un mare, e quell’acqua è ancora lì sotto. Con le giuste infrastrutture – costose, certo, paragonabili a quelle necessarie per i pozzi petroliferi – sarebbe possibile portarla in superficie. E questo permetterebbe di creare una vasta fascia verde agricola, capace di contrastare la desertificazione e nutrire milioni di persone.
Si tratta di un tema cruciale, perché l’Africa è l’unico continente destinato a vivere una crescita demografica imponente nei prossimi decenni. Oggi conta circa 1,3 miliardi di abitanti, ma entro il 2050 saranno almeno 2,3 miliardi, forse addirittura 2,8. Nessun altro continente conoscerà una dinamica simile: l’Europa è già in declino demografico, la Cina raggiungerà il suo picco negli anni Trenta, gli Stati Uniti entreranno in una fase di stagnazione.
Quello che oggi vediamo in termini di migrazioni è soltanto l’inizio, appena la prefazione di problemi molto più gravi che esploderanno nella seconda metà di questo secolo. Sarebbe molto più lungimirante accettare una parte di questa migrazione, in particolare i giovani, per formarli e permettere loro di costituire un’élite africana con cui poter dialogare. In questo modo potremmo costruire un rapporto di scambio realmente reciproco e vantaggioso: noi, forti delle nostre risorse, finanziamo fin da oggi grandi progetti ecologici capaci di offrire lavoro e cibo alle nuove generazioni africane; in cambio, l’Africa ci fornisce una parte delle materie prime e dei minerali di cui l’industria europea ha urgente bisogno.
È un tema politicamente delicato, certo, ma è anche una delle poche strade possibili per trasformare le migrazioni in un’opportunità condivisa, invece che in una minaccia.
La guerra e il massacro dei civili a Gaza mette in evidenza la crisi della comunità internazionale e dei suoi valori: perché non ci sono azioni concrete per fermare gli attacchi israeliani?
Di fronte alla tragedia di Gaza – una tragedia che diversi organismi internazionali hanno già definito un tentativo di genocidio – quello che posso dire è che ci troviamo davanti a una guerra che porta all’organizzazione deliberata e artificiale della carestia tra le popolazioni civili.
Non possiamo, a mio avviso, noi europei, limitarci a dire: “È Hamas che dovrebbe accettare le condizioni imposte dal governo israeliano, dunque è Hamas il responsabile della morte dei civili.” Questa posizione non è accettabile. Anche se è vero che Hamas è un’organizzazione terroristica, ciò che sta accadendo oggi è che uno Stato conduce una guerra contro una popolazione civile.
Da questo punto di vista, l’Europa dovrebbe seguire le indicazioni della Corte di giustizia europea e delle Nazioni Unite, chiedendo la fine immediata della guerra a Gaza. Perché non lo fa? Le ragioni sono molte. Da una parte, il peso della cattiva coscienza tedesca nei confronti della Shoah e la difficoltà di una parte dell’opinione pubblica tedesca a entrare in conflitto con Israele. Dall’altra, una fedeltà verso gli Stati Uniti, che sostengono le scelte del governo israeliano. E questo riguarda non solo la Germania, ma anche paesi come l’Italia e la Francia, che si trovano in difficoltà ad assumere una posizione contraria a quella americana.
Tutto ciò rende complicato avere una presa di posizione unitaria in Europa, anche se una parte significativa dell’opinione pubblica europea è profondamente scandalizzata da quanto sta accadendo a Gaza. È chiaro che stiamo entrando in una fase di cambiamenti colossali: veri e propri mutamenti di paradigma, che si sono accumulati negli ultimi anni e che oggi esplodono in tutta la loro forza.
A pochi mesi dall’insediamento di Donald Trump, assistiamo a un cambiamento di paradigma nella politica internazionale, ma non solo: siamo di fronte a una rivoluzione dei valori e al ripensamento dei diritti universali? Cosa ci aspetta?
Il piano strategico di Trump, al contrario di quanto spesso si pensa, non è affatto irrazionale. Il suo obiettivo è chiaro: reindustrializzare gli Stati Uniti per prepararli alla parità tecnologica con la Cina prevista intorno al 2030. In una nuova guerra fredda, infatti, non vincerà chi ha più potere finanziario, ma chi saprà contare sulla maggiore capacità industriale. E oggi gli Stati Uniti partono svantaggiati: il loro settore industriale rappresenta appena il 12% del PIL, una quota paragonabile a quella dell’Italia.
La diagnosi, dunque, è corretta: l’Occidente si è deindustrializzato, e i democratici americani hanno commesso l’errore di credere che la finanza potesse sostituire l’industria. Ma non è così. Una guerra non si vince con la speculazione finanziaria, si vince con la produzione industriale.
È in questa prospettiva che Trump vuole abbassare il valore del dollaro per rendere più competitive le esportazioni statunitensi e, nello stesso tempo, imporre dazi per scoraggiare le importazioni. I dazi diventano così un’arma negoziale da usare contro l’Europa e l’Asia, con l’obiettivo di attrarre negli Stati Uniti interi settori industriali europei – dalla Germania all’Italia del Nord, dalla Svizzera alla Francia. Se questo progetto dovesse riuscire, sarebbe un disastro per l’Europa.
Ma non si ferma qui. Trump vuole anche costringere gli europei a finanziare il debito pubblico americano a tassi bassissimi, trasformando l’Europa in un semplice strumento a sostegno dell’economia statunitense.
Dietro la sua rozzezza, insomma, c’è un piano economico coerente, ma anche un progetto ideologico: quello del dark enlightenment, che mira a distruggere l’eredità dell’Illuminismo europeo e a rifeudalizzare la società occidentale.
Di fronte a tutto questo, l’unica vera risposta possibile per l’Europa sarebbe completare finalmente l’unione politica, costruendo una Confederazione capace di parlare con una sola voce di fronte agli Stati Uniti.
Lei ha scritto molto sulla necessità di ripensare i beni comuni. Come difenderli in questi tempi di arretramento dei diritti universali?
Se vogliamo immaginare un futuro diverso, dobbiamo cominciare dalla protezione dei beni comuni globali. Il primo è il fondo degli oceani: abbiamo assoluto bisogno di impedirne la distruzione. Poi c’è l’Amazzonia, un patrimonio che riguarda l’intera umanità e che dovrebbe essere sostenuto da un finanziamento internazionale, anche senza gli Stati Uniti, per aiutare i paesi amazzonici a preservarla. Lo stesso vale per la fauna ittica, per i pesci che rischiano di sparire se non li proteggiamo, e per gli impollinatori, che sono essenziali alla nostra sopravvivenza.
Un altro bene comune globale è la salute. Con la Covid-19 abbiamo visto che la salute di una famiglia cinese riguarda tutti noi: viviamo in una rete di interdipendenza globale che non possiamo più ignorare. La privatizzazione della sanità, in questo senso, è una catastrofe. Anche l’OMS, purtroppo, non è più all’altezza: serve inventare nuove istituzioni internazionali.
Ed è proprio qui che entra in gioco la seconda grande questione: la costruzione di una nuova comunità internazionale. Non può più essere quella di Bretton Woods – è finita – né può continuare a essere centrata su Washington, che non rispetta nemmeno più la propria parola. Ciò che dobbiamo immaginare è una comunità policentrica, capace di unire i paesi del Sud e i BRICS, e qui l’Europa potrebbe avere un ruolo decisivo. Perché l’Europa ha una tradizione, una cultura, un vero sapere in questo campo.
Forse è un sogno, ma se non ci proviamo, il nostro destino sarà comunque segnato: o diventiamo i vassalli degli Stati Uniti, o scompariamo.