Polizia e sicurezza

Da Genova a oggi, verso una normalità autoritaria 

approfondimento


Articolo tratto dal N. 42 di Sorvegliati e puniti Immagine copertina della newsletter

Genova e il reato di tortura

Non c’è bisogno di troppi giri retorici per affermare che il G8 di Genova del 2001 abbia rappresentato uno spartiacque nella storia repubblicana italiana. Per la prima volta in tempo di pace si è assistito a un impiego della forza pubblica che ha violato in modo sistematico i diritti fondamentali. Amnesty International la definirà “la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda guerra mondiale”.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha parlato esplicitamente di “tortura” nel caso Cestaro c. Italia (2015), così come nella causa Bartesaghi Gallo e altri c. Italia (2017) ossia per i fatti della scuola Diaz, denunciando la mancanza di strumenti adeguati nel sistema giuridico italiano per prevenire e punire gravi violazioni da parte delle forze dell’ordine1.

Il reato di tortura non c’era né nel 2001, né nel 2015.

Ci sono voluti 16 anni da quegli eventi e un lungo dibattito politico e istituzionale per arrivare alla legge 110/2017, che finalmente introduce i reati 613-bis e 613-ter del Codice Penale. La norma, pur rappresentando un passo necessario, è stata da molti giudicata debole: richiede un elemento di “più condotte”, esclude la configurabilità della tortura nei casi singoli, e non prevede la imprescrittibilità del reato.

Nel corso degli anni, le richieste di modifica sono state frequenti, soprattutto da parte di sigle sindacali delle forze di polizia. L’attuale governo non solo aveva costruito parte della campagna elettorale che ha portato alla sua elezione sull’abrogare il reato, ma ha annunciato nel 2024 un disegno di legge che mira a differenziare le responsabilità tra cittadini e pubblici ufficiali, limitare l’applicazione del reato nei contesti di ordine pubblico e prevedere pene più lievi.

Carica della Polizia, G8 - Genova 2001
Carica della Polizia, G8 – Genova 2001

Il Decreto Sicurezza: più tutele per le forze dell’ordine 

Parallelamente, è stato approvato il cosiddetto “Decreto Sicurezza”, oggi legge, che amplia le misure repressive e amministrative: aumento dei DASPO urbani, sanzioni penali più severe per occupazioni e blocchi stradali, nuove norme su accattonaggio e immigrazione irregolare. Si rafforza un’idea di sicurezza come ordine da garantire attraverso la prevenzione e il contenimento, piuttosto che mediante garanzie e diritti. Il decreto, inoltre, prevede un’ampia parte dedicata proprio alla tutela delle forze dell’ordine e della gestione della vita carceraria. Se fino ad oggi il bene giuridico da proteggere era individuato dai decreti sicurezza in una parte della popolazione (di volta in volta: i cittadini perbene, gli anziani, i bambini, i vulnerabili, i residenti) questo decreto protegge esplicitamente solo le forze dell’ordine e dispone investimenti finanziari solo per coprirne le spese legali, in un contesto in cui circa 200 operatori risultano sotto processo per reati quali tortura, lesioni aggravate e falso ideologico. Tra questi, 120 sono gli agenti imputati per i fatti di Santa Maria Capua Vetere.

La normativa appare quindi come una risposta alle recenti vicende giudiziarie, tra cui i rinvii a giudizio di agenti coinvolti in episodi di violenza nell’istituto minorile Beccaria di Milano e in altre strutture penitenziarie di Torino, Bari, Monza, San Gimignano, Ivrea, Modena e Reggio Emilia. L’approccio seguito sembra dunque orientato a tutelare il corpo delle forze dell’ordine rispetto ai procedimenti in corso, piuttosto che a intervenire sulle criticità strutturali del sistema carcerario e della sicurezza urbana.

Le nuove norme aumentano le pene per violenza, minaccia e resistenza contro pubblici ufficiali, con aggravanti specifiche se le vittime sono agenti di polizia. Le attenuanti non possono più prevalere su queste aggravanti, limitando la possibilità di personalizzare la pena.

Per le lesioni gravi a pubblici ufficiali in servizio, le pene possono arrivare fino a 16 anni di carcere. Un ulteriore aspetto cruciale del disegno di legge riguarda la situazione carceraria. La difesa sociale svela una delle funzioni proprie dell’istituzione carcere, oltre a quelle dichiarate di rieducazione e di privazione della libertà, ossia l’ombra vendicatoria del carcere come forma di potere, e come manifestazione propria della sovranità statale. Attualmente, la popolazione detenuta ammonta a circa 62000 unità, con un incremento costante di circa 200 detenuti al mese.

Corso Gastaldi G8 di Genova 2001
Corso Gastaldi, G8 di Genova 2001

La polizia come “produttrice di ordine” 

Per comprendere la razionalità politica di questi interventi, è utile attingere agli strumenti teorici di Mark Neocleous e Ben Brucato. Secondo Neocleous, la polizia non va intesa esclusivamente come forza repressiva dello Stato, ma come un progetto di produzione proprio dell’ordine sociale (Neocleous 2000).

La funzione storica della polizia è infatti la produzione dell’ordine stesso, non la sua tutela (Neocleous, 2000, p. 19). Il potere di polizia è costitutivo della forma Stato e agisce su un continuum che comprende il diritto, l’amministrazione e il governo della popolazione. In questa prospettiva, la sicurezza si configura come dispositivo normativo che organizza l’insicurezza sociale.

In un contesto all’apparenza molto differente da quello italiano Ben Brucato, analizzando il nesso tra razza e polizia negli Stati Uniti, sottolinea inoltre come la polizia non operi in modo neutro rispetto alle strutture di diseguaglianza. Essa, infatti, agisce nella produzione e riproduzione di un ordine razzializzato . La polizia agisce attraverso una “estetica della minaccia” ovvero una costruzione simbolica e percettiva del pericolo che giustifica l’uso della forza. Anche se il paragone appare forse azzardato, l’Italia non è esente da questi meccanismi, anzi.

Il rapporto ECRI del Consiglio d’Europa (2021) ha denunciato pratiche diffuse di profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine italiane. L’aumento dei poteri discrezionali, la debole regolazione delle tecniche coercitive e la difficoltà nell’identificare gli agenti responsabili di abusi rendono strutturalmente fragile il sistema di controllo democratico sulla polizia. La bodycam, ad esempio, introdotta come strumento di trasparenza, viene impiegata senza numeri identificativi leggibili degli agenti, né obbligo di attivazione continua e quindi diventa uno strumento del potere per il potere e non per la tutela effettiva dei cittadini.

In tale contesto, la proposta di riformare la legge sulla tortura appare non come un incidente isolato, ma come parte coerente di un disegno più ampio. Secondo Neocleous, il liberalismo tende a occultare la natura costitutiva della forza nello Stato, trasformando la polizia in uno strumento neutrale di rafforzamento della legge (Neocleous 2000, p. 29). Il problema, tuttavia, non è l’eccezione, ma la normalizzazione della discrezionalità e della sua indeterminatezza (p. 101). L’idea che l’uso della forza da parte dello Stato debba essere garantito anche quando viola i diritti è una delle contraddizioni centrali del costituzionalismo contemporaneo.

In questo senso, la torsione autoritaria non è solo un problema giuridico o istituzionale, ma una questione politica. Se la polizia è, come scrive Brucato, un sistema di saperi, allora modificare le categorie penali che la riguardano significa riscrivere le condizioni epistemologiche della legalità, della legittimità politica e in qualche modo, della democrazia stessa. Perché non condannare la violenza istituzionale ma legittimarla come forma necessitata è una trasformazione profonda che altera il rapporto tra istituzioni e tra istituzioni e cittadini.

Bodycam
Bodycam

Ristabilire la responsabilità pubblica 

Le conseguenze possibili di questa trasformazione sono molteplici. Da un lato, si riduce la possibilità per i cittadini di far valere i propri diritti in caso di abuso. Dall’altro, si consolida un modello di sicurezza come tecnologia di governo, basato sull’antagonismo più che sulla mediazione, sull’anticipazione del rischio più che sulla garanzia di libertà. La sicurezza, lungi dall’essere un bene comune, diventa un criterio di esclusione e un linguaggio che giustifica l’esercizio della forza.

Inoltre, queste trasformazioni non agiscono solo in concreto, ma producono un clima (di impunità da un lato, di intimidazione e di difficoltà di denunciare dall’altro) che di per sé produce effetti, a prescindere dall’effettivo intervento normativo sulla legge 110/2017.

L’orizzonte democratico si gioca allora sulla capacità di interrogare questa verità scomoda, e di rimettere al centro del dibattito la responsabilità pubblica nei confronti del potere coercitivo. Se tutti sono concordi sul fatto che le piazze italiane non sono più state le stesse dopo il 2001, in questa estate securitaria c’è il timore che tale spazio di confronto e di conflitto democratico si possa restringere ulteriormente. La spinta e la fiducia politica si sono erose. Malgrado tutto, come diceva Pertini, “Noi abbiamo il dovere di far sì che per colpa nostra neppure un’ombra scenda più su questo ricordo”. In un’estate di ombre, la memoria condivisa è strumento e antidoto per fornire almeno al diritto le parole adeguate per descrivere la tortura, perché dove inizia la tortura, finisce la democrazia.

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