1000 giorni per tre bavagli

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Articolo tratto dal N. 43 di Le mani sulla cultura Immagine copertina della newsletter

La destra al potere sembra puntare in una sola direzione: il controllo. Soffocare il dissenso è la priorità. Un paese pacifico, piuttosto lento a muoversi e a reagire, ricco di giovani che provano a rappresentare se stessi con la parola e l’azione e di meno giovani che inneggiano alla pace e un’idea di benessere fatto non solo di denaro ma di qualità di vita, si ritrova in un recinto. Quello disegnato dal primo Governo Meloni.   

La prima spia è il drammatico ddl Sicurezza, che riduce drasticamente gli spazi di protesta pacifica e manifestazione pubblica, inibisce l’uso degli spazi pubblici per forme di comunicazioni alternative e spontanee, mette il bavaglio ai non allineati.  

Seconda grande spia è la palese o malcelata volontà di pilotare le grandi partite economiche, basti pensare al tentativo di Monte dei Paschi di Siena, banca salvata e oggi controllata dallo Stato, di acquisire Mediobanca, il cuore del capitalismo nostrano. Una volta portata a buon fine, la scalata metterebbe l’intero sistema economico e finanziario del nostro paese, ma soprattutto il gioiello della corona, le Assicurazioni Generali, alla mercè del potere esecutivo. 

Terzo anello della catena del controllo, o terzo lato del recinto nel quale ci avviamo a danzare inconsapevoli sotto la calura estiva, è la cultura: mettere le mani sulla cultura, vestita o rivestita all’abbisogna di egemonia culturale, significa piegare il pluralismo a una logica di occupazione sistematica.  

E’ tempo di farci i conti: siamo alle prese con una frattura, sempre più profonda, che tocca il nervo della libertà creativa e della vivacità culturale. L’intervento è costante e sistematico, prende l’avvio da una visione di parte delle istituzioni, che smettono di rappresentare tutte e tutti ma alimentano solo la parte vincitrice, e si completa con l’utilizzo conseguente del finanziamento pubblico, usato come una clava per spegnere le voci, realmente o presuntamente dissidenti o semplicemente critiche o ancor più banalmente indipendenti.  

Mettiamo in fila alcuni fatti:   

Quando mesi fa il Teatro della Pergola di Firenze, con il suo Direttore artistico Stefano Massini, è stato declassato, perdendo lo status di Teatro Nazionale e il 20% dei finanziamenti, qualcuno ha parlato di un semplice “riordino”. Ma la tempistica, le modalità e soprattutto il silenzio politico sulle proteste seguite – tra cui una conferenza stampa gremita in piazza della Signoria e centinaia di firme autorevoli – raccontano altro: un atto dimostrativo, un messaggio implicito.Non disturbate il conducente. Chi produce cultura deve farlo secondo le coordinate della compiacenza. Ogni deviazione – sperimentazione, dissenso, perturbazione – va disciplinata.  

Una conferma eloquente arriva dalla rimozione di Tomaso Montanari dalla presidenza del Museo Ginori di Firenze. Doveva essere una conferma scontata, dati il lavoro svolto e la statura del professore. E invece il ministero della Cultura ha scelto di sostituirlo con Marco Corsini: profilo apparentemente sprovvisto di competenze specifiche sui beni culturali, ma con una lunga storia di incarichi in ambienti di destra. Una misura politica mascherata da rotazione istituzionale, che suona come un monito a tutti gli intellettuali non allineati.  

Non è un caso isolato. Basta guardare alla recente tornata di punteggi artistici assegnati dal Ministero attraverso il Fondo Unico per lo Spettacolo. La composizione della nuova commissione per i criteri di assegnazione dei fondi, guidata da un avvocato di fiducia del sottosegretario Mazzi, suggerisce un disegno chiaro: ridefinire le regole del gioco a monte, per orientare l’esito a valle. Non più pluralità e biodiversità culturale, ma una “linea” che seleziona e sanziona. Una strategia della normalizzazione, dove la creatività non deve più sorprendere ma rassicurare, secondo i canoni nazionalistici dell’italianità e della tradizione.   

Esemplare il caso del Cinema, con decine e decine di produzioni ferme o mai prese in considerazione dalle strutture ministeriali, in quanto espressione di quella CineCittà definita “cratere ribollente di nulla” o “l’Urss a Roma”, da estirpare e rivestire di progetti compiacenti, oppure l’emblematica sorte del Festival di Santarcangelo.  

Il Ministero ha ridotto drasticamente il punteggio di qualità artistica assegnato al Festival, dimezzando i contributi per il triennio 20252027.   

Il Sindaco e la Regione hanno parlato di “attacco alla libertà di espressione”. Il direttore artistico Tomasz Kirenczuk ha messo in luce una dinamica ancora più profonda: «non c’è più spazio per il rischio culturale, per la complessità, per l’imprevisto». Perché Santarcangelo nelle sue tante edizioni è stato un abilitatore di pluralismo,

“un festival, come ha scritto il suo Presidente Giovanni Boccia Artieri, che ha sempre fatto della sperimentazione non un vezzo, ma un atto politico, alimentando uno spazio pubblico denso, attraversato da domande, posizioni, conflitti. E proprio per questo, oggi, diventa bersaglio”.   

In questo disegno generale, nemmeno la scuola è risparmiata. Lo dimostra il caso del manuale di storia Trame del tempo, colpevole – secondo il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara – di rappresentare un punto di vista “parziale e ideologico”. La replica di Alessandro Laterza, editore del volume, è stata netta: “siamo nell’anticamera della censura”.   

Non è stata da meno la vicenda che ha coinvolto la nostra Fondazione, i cui contributi pubblici sono stati dimezzati nel triennio in corso, dopo la nomina di Federico Mollicone (Fratelli d’Italia) alla presidenza della Commissione Cultura. Nessuna spiegazione chiara, nessun dibattito trasparente: solo l’applicazione silenziosa di una linea politica che ha molto a che vedere con quella che Maurizio De Giovanni ha definito “La sindrome da risentimento culturale”.   

Il finanziamento pubblico alla cultura è, in democrazia, uno strumento di libertà. Ma può diventare – se guidato da logiche punitive o identitarie – uno strumento di censura, o più sottilmente un invito all’auto-censura. Non serve chiudere i teatri o bandire libri: basta affamarli.   

Basta “riformare” i criteri, “riorganizzare” le commissioni, “razionalizzare” i punteggi. E il risultato è servito: una cultura mansueta, addomesticata, afona 

È qui che la questione si fa politica. La cultura non è un decoro da salotto né un accessorio per le campagne elettorali. È il luogo in cui si coltiva l’imprevisto, si esplora la complessità, si pratica la dialettica. Il rischio che stiamo correndo è di perdere lo straordinario valore della “biodiversità culturale” a tutto vantaggio della monocultura dell’intrattenimento.  

Contro questa tendenza, servono alleanze nuove tra istituzioni locali, operatori culturali, artisti, cittadini. Questo numero di Pubblico ha anche questo valore programmatico: rafforzare quelle connessioni solidali e collaborative che costituiscono il cuore pulsante dell’ecosistema culturale italiano, dai teatri indipendenti ai centri di ricerca, dagli editori alle compagnie di danza.   

La posta in gioco è quel fragile equilibrio tra potere e pensiero critico che tiene in piedi una società libera. Noi siamo certi d’intercettare la maggioranza dei nostri concittadini e delle nostre concittadine quando non solo non rinunciamo al nostro pensiero, e a renderci promotori di iniziative che fanno dell’indipendenza sia il loro preambolo sia la loro destinazione, ma sollecitiamo tutti i soggetti confinati nei variegati recinti costruiti da questo Governo ad assumere questa nuova realtà come uno stimolo a renderci ingegnosi per inneggiare sempre ed autenticamente alle nostre libertà 

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