Umanità in esilio – L’“infravita degli esuli”

 


Articolo tratto dal N. 48 di Vite respinte Immagine copertina della newsletter

Pubblichiamo un estratto (pag. 321324) del libroUmanità in esilio” (Feltrinelli, 2025) di Anne Claire Defossez e Didier Fassin, per gentile concessione degli autori e dell’Editore. 
 
Di Didier Fassin e Anne Claire Defossez

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E poi ci sono i “morti viventi” (…): persone respinte, maltrattate, picchiate, ridotte a mangiare scarti, tenute alla mercé dei militari, che sono ancora vive ma sono già quasi morte, e alcune delle quali scompaiono senza che nessuno lo sappia. Tra la vita e la morte, dunque, c’è un’infravita, una vita che la società rende indegna di essere vissuta. Questa infravita è segnata, come abbiamo indicato, da una doppia discriminazione di razza e di genere. Un giovane guineano, con cui abbiamo avuto una lunga conversazione, aveva vissuto quel luogo come talmente insopportabile che se ne era andato dopo una decina di giorni, rinunciando a recarsi a Melilla e tornando in Algeria. 

Queste infravite a cui gli esuli sono condannati dalle società che attraversano nel loro viaggio, e in cui restano bloccati per forza di cose, si trovano nelle carceri libiche dove i detenuti sono rinchiusi fino al pagamento del riscatto, così come nelle fabbriche bosniache in disuso dove si rifugiano i sopravvissuti alle violenze della polizia croata, nel campo profughi di Mória sull’isola di Lesbo così come sui marciapiedi dietro la stazione Termini di Roma, nelle foreste al confine con l’Ungheria così come nelle lande desolate della regione di Calais e, se allarghiamo la prospettiva, nei centri offshore australiani per richiedenti asilo così come nei campi migranti messicani lungo la frontiera con gli Stati Uniti. Sono luoghi di indegnità forzata, di potenziale violenza, di diritti negati.

Nel corso dei mesi e degli anni di viaggio, gli esuli affrontano questa esperienza da soli, in coppia o in famiglia. In effetti, alcuni bambini hanno trascorso più anni della loro vita in luoghi in cui l’anormalità è normalizzata che in quella che potrebbe essere considerata la vita normale di un bambino. Quando parliamo di infravita, tuttavia, non pensiamo alla nuda vita teorizzata da Giorgio Agamben. Non si tratta infatti di una forma di vita ridotta al semplice fatto di vivere, e nemmeno alla sola vita fisica, perché l’infravita rimane una vita sociale. Parlando di infravita, vogliamo sottolineare quelle situazioni in cui la violenza mantiene donne e uomini al confine tra il vivente e il non vivente, in cui la vita sociale è dequalificata dall’umiliazione e dalla privazione, in cui l’esercizio del potere è così illimitato che la vita fisica può essere soppressa, che sia da parte di un soldato irascibile, di un trafficante senza scrupoli o di un politico sicuro della validità della sua ideologia xenofoba che espelle gli esuli abbandonandoli nel deserto, o che sottrae i naufraghi al soccorso delle navi umanitarie. 

“Se certe vite non sono qualificate come vite, o non sono concepibili come vite fin dall’inizio all’interno di certi quadri epistemologici, allora queste vite non sono né vissute né perse in senso pieno,” scrive Judith Butler. L’infravita è infatti la vita dequalificata dagli agenti di polizia sulla rotta balcanica, dalle bande armate attraverso il Sahara e dai politici dell’Unione europea per i quali gli esuli non contano e possono essere sminuiti, abbattuti e abbandonati. Ma non per questo è meno vissuta e rischia di andare perduta. Perché, nonostante le violenze subite, il disprezzo con cui vengono trattati, l’indifferenza di fronte a cui si trovano, questi uomini e queste donne cercano costantemente di rimettersi in piedi per continuare il loro viaggio, e riqualificarsi. 

Che cosa significa vivere questa infravita? Cosa significa confrontarsi con questa precarietà in ogni momento della propria esistenza? Significa portare tutti i propri averi in un piccolo zaino per correre più velocemente, nascondersi nei boschi per evitare controlli d’identità e denunce, scalare montagne per attraversare una frontiera, attraversare il mare e i fiumi senza saper nuotare, viaggiare sull’asse di un camion o sull’aggancio di un carro, ferirsi le mani arrampicandosi sul filo spinato o rompersi una caviglia saltando da un muro; subire violenze sessuali da parte di agenti di polizia, passeurs o compagni di viaggio; essere picchiati, derubati, spogliati e umiliati da agenti di polizia, e tentare ancora e ancora fino a quando non si riesce a passare.

In altre parole, l’infravita di cui stiamo parlando non è sottomissione. È resistenza. Se osiamo usare questo neologismo, potremmo dire che, anche se si è “resi indegni” dagli stati e dai loro agenti, e da tutti coloro che traggono profitto da questa situazione, si cerca comunque, per quanto possibile, di preservare la propria dignità. A questo proposito è significativo un dettaglio. È la preoccupazione per il proprio aspetto che donne e uomini mantengono, come sfida alle condizioni del loro viaggio. È l’attenzione che prestano all’eleganza del loro abbigliamento fin dal momento dell’arrivo, attingendo alle risorse del guardaroba del rifugio. Una donna africana rimanda il suo viaggio in treno al giorno successivo per farsi intrecciare i capelli. Un medico congolese laureato a Cuba che qualche giorno prima aveva dormito all’addiaccio in Italia, era vestito con un completo, una camicia bianca e dei mocassini di cuoio che aveva tenuto nello zaino per tutto il viaggio verso Parigi, dove doveva incontrare la sorella maggiore e sperava di poter esercitare la sua professione. 

Molto spesso, nelle nostre conversazioni con gli esuli, ci hanno raccontato del loro senso di spreco, di anni di vita persi, di tempo trascorso come una parentesi interminabile che nessuno voleva chiudere per loro. È un’altra forma di infravita, meno drammatica di quella degli accampamenti nelle foreste del Marocco e della Bosnia, meno esplicitamente violenta di quella dei campi di tortura in Libia e di quelli di indefinito trattenimento in Grecia, ma in cui si impone l’insignificanza. La politica dell’attesa sta diventando un modo diffuso per governare gli esuli. Che cos’è questa politica di “immobilizzare i rifugiati e costringerli ad aspettare”? chiede Romola Sanyal a proposito dei rifugiati siriani in Libano. Si aspetta in un campo o in una prigione, si aspettano i soldi o un documento, si aspetta di riprendersi dopo essere stati derubati dalla polizia o di rimettersi in sesto dopo essere stati feriti da loro. Si aspetta in un luogo ostile o benevolo, alla mercé di bande armate o sotto la protezione di operatori umanitari. Si aspetta perché non si hanno documenti e non ci si può muovere in città, oppure perché si hanno i documenti ma non si può studiare o lavorare. L’ozio forzato porta alcuni a sprofondare nelle dipendenze più accessibili e meno costose, altri ad affidarsi all’assistenza di organizzazioni caritatevoli, e tutti rischiano di essere privati della loro autonomia. Passano i mesi e gli anni. Nei paesi che attraversiamo, osserviamo la vita normale di chi ha una casa, un lavoro, un coniuge, dei figli, dei progetti, tutto ciò di cui noi stessi siamo privi. Questa infravita è l’invisibile, silenziosa esclusione dalla propria vita, e contro di essa gli esuli devono mobilitare quotidianamente notevoli energie e perseveranza.

Titolo dell’opera originale L’exil, toujours recommencé. chronique de la frontière © Éditions du Seuil, 2024 Traduzione dal francese di lorenzo alunni © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in “Scintille” febbraio 2025 

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