Vivere nella terra di nessuno


Articolo tratto dal N. 48 di Vite respinte Immagine copertina della newsletter

Verso l’utopia

«Paura cosmica», scriveva il teorico della letteratura russo Michail Bachtin, è quella condizione fondata dal “ricordo degli sconvolgimenti cosmici del passato e da un’indefinita paura di sconvolgimenti cosmici futuri” [Bachtin, pp. 367-368]. «Paura cosmica» è una condizione egemone oggi e il tema dei flussi migratori è un esempio calzante. Mi spiego. 

Nel 1998 Zygmunt Bauman propone di scavare dentro la globalizzazione. Quella parola, scrive, si accredita come erede dell’immaginario utopico e vorrebbe alludere a un percorso “verso la futura perfezione ordinata” [p. 43].  Ovvero: il mondo abbandona le diversità e diventa un’unica piazza con condizioni economiche, culturali, sociali unificate. Tutti diventano uguali. Peccato, aggiunge Bauman, che questo sia solo un desiderio, perché la globalizzazione non semplifica la realtà, ma la complica; e perché nessuno è disposto a “perdere tempo” prestando attenzione alle diseguaglianze che aumentano e alle differenze che separano sempre il mondo fra ricchi e poveri. 

Spostarsi Oggi

Circa venti anni dopo torna a considerare quella condizione in un tempo che avverte carico di paure. Il tempo è quello compreso tra l’attentato a “Charlie Hebdo” (7 gennaio 2015) e l’inizio della marcia trionfale di Donald Trump verso la Casa Bianca nella primavera-estate 2016. 

Quello che vent’anni prima si presentava come una questione esistente ma ancora minoritaria (tema caro al Sud del mondo verso il Nord ricco), ora in Stranieri alle porte (il testo che insieme a Retrotopia costituisce le sue parole ultime) è ineludibile. 

Bauman non è l’unico. Umberto Eco nel 1997 spiegava che l’intero pianeta stava già allora diventando territorio di spostamenti incrociati. Eppure, la risposta che acquista sempre più fondamento nelle opinioni pubbliche è il principio della purezza nazionale, del “ciascuno a casa sua”. Perché? 

Perché, appunto, tutti gli attori sul campo vivono la condizione descritta da Bachtin: una condizione che si nutre di paure e rifiuta di pensare progetto. In questo quadro, l’orgoglio della nazione morde sia le opinioni pubbliche del Nord del mondo, sia quelle del Sud, sia quelle dei nuovi attori ricchi di area Brics. Nessuno ne è escluso. 

Affrontare la storia degli spostamenti implica capire, come sottolineava trenta anni fa il sociologo algerino Abdelmalek Sayad, che «immigrazione» ed «emigrazione» sono due fenomeni connessi che presentano gli stessi tipi di strappi e che chiedono di raccontare le contraddizioni, i falsi e i limiti di tutte e due i versanti comunitari: sia quello dei gruppi che emigrano, sia di quello dei gruppi chiamati a “integrare” e che fanno di tutto per non rendere questa realtà possibile.  

Stralci d’identità

Da una parte, chi non trova un luogo o una comunità di accoglienza. Dall’altra, l’atto di emigrare che da parte della propria comunità di nascita è interpretato come rifiuto della propria identità nazionale. Invertire la marcia e tornare a casa, per chi emigra, implica prima di tutto confermare l’appartenenza e sottomettersi al regime che c’è. Perché andarsene è, prima di tutto, un atto di rivolta contro la società in cui si è nati. 

Processo di doppia esclusione che viene risolto o con la uscita, l’abbandono e la sconfessione definitiva e soprattutto ideologica della propria identità; (processo esigente, nel tempo dell’egemonia sovranista); o con il fallimento dell’aspirazione a un processo di integrazione da parte del paese di approdo, processo che nell’arco di due generazioni di immigrati torna al punto di partenza. L’unica strada che rimane aperta per poter presentare le credenziali della propria dignità diventa un “rientro” (culturale, ideologico, comportamentale, ecc.) dei “nipoti” rispetto al tentativo dei “nonni” di uscire dalla propria società di partenza.  

L’effetto di questo doppio processo è aumentare il vuoto e costruire muri dove chi tenta di attraversarli è destinato a rimanere in una «terra di nessuno». Qualcosa che, con ironia, ci aveva fatto vedere The Terminal. 

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