Introduzione
Il processo di globalizzazione del mercato ha portato ad un appiattimento del paesaggio alle necessità di una produzione competitiva dove le specificità di ogni ambiente ecologico diventano limiti da superare.
La montagna, come spazio difficile da addomesticare, non ha trovato spazio in tale geografia, diventando spesso periferia destinata all’abbandono.
Nel progetto Storie di vite – una ricerca antropologica condotta da Federica Riva e Michela Badii, promossa da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e cofinanziata dalla D.G. Culture, Identità e Autonomie di Regione Lombardia nell’ambito delle attività dell’AESS Archivio di Etnografia e Storia Sociale dedicata ai pendii delle viticolture d’altitudine lombarde – si documenta il paesaggio montano e di pendenza a partire dalle nuove generazioni, dal loro modo di ritornare alla terra ripensando creativamente all’eredità immateriale incarnata nel paesaggio viticolo e al loro “fare rete” in modi tra loro diversi ma che hanno come orizzonte comune quello di riscoprire la montagna come spazio di vita. Guardare al paesaggio a partire dalle vigne, dalle forme prese dalle viti nel tempo e dalle generazioni di vignaioli che si sono susseguite, significa indagare sui processi di cambiamento, dove i saperi ereditati s’innestano in rinnovate visioni di futuro.
Il paesaggio rurale come patrimonio immateriale: viticolture d’altitudine in Lombardia
La ricerca antropologica Storie di vite nasceva qualche mese fa allo scopo di documentare in forma visiva e narrata uno dei patrimoni immateriali della Lombardia, quello delle viti-culture d’altitudine, attraverso la restituzione delle ‘voci’ di coloro i quali si fanno custodi attivi e creativi di questo particolare tipo di paesaggio rurale.
Tra i contesti viticoli esplorati dalla ricerca, la Valtellina si profila come uno spazio esemplare, contraddistinto com’è da particolari configurazioni orografico-ambientali: un’area montana, di altitudine, dove è ancora possibile osservare i tradizionali assetti che ospitano gli spazi coltivati a vite, i terrazzamenti, lascito materiale delle precedenti generazioni contadine, e che costituiscono ancora oggi il principale segno distintivo dell’area.
Entrato tra i beni oggetto di tutela istituzionale, il paesaggio è forse quello più complesso da definire: ‘luogo di luoghi’, contenitore di diverse percezioni di un territorio, tante quante le attività che lo caratterizzano e le memorie sociali delle comunità che nel tempo lo hanno abitato.
Con questa consapevolezza abbiamo rivolto il nostro sguardo alle nuove generazioni di viticoltori, come portatori di una percezione ‘densa’ di paesaggio rurale, di una relazione agita tra l’uomo e l’ ambiente, che ben racchiude il significato stesso dell’attributo ‘immateriale’ conferito ai patrimoni: da un lato le conoscenze empiriche, i saperi materiali che ‘fanno’ i luoghi, e dall’altro le memorie – familiare, generazionale, comunitaria – qui intese come ponte fra le ‘tradizioni’ ereditate e le scelte del presente.
La decodifica di questi piccoli patrimoni rurali lombardi richiede un complesso lavoro di riconnessione culturale: delle relazioni uomo-risorse, della storia locale, dei segni resistenti con i quali i viticoltori odierni si trovano a fare i conti.
Le configurazioni geografiche – aree di pendenza o di altitudine – che accomunano i diversi contesti oggetto d’indagine hanno indotto le società contadine di un tempo a elaborare specifiche concezioni estetico-tecnologiche (come i terrazzamenti a contegno delle superfici vitate o le piccole cantine in vigna), al fine di razionalizzare spazi di per sé poco favorevoli allo sviluppo dell’agricoltura. Questi singolari e fragili paesaggi viticoli sono oggi (ri)pensati dalle nuove generazioni, che si confrontano con uno sfibramento di quelle relazioni comunitarie – l’abbandono culminato negli anni Sessanta del secolo scorso – che prima garantivano continuità nella trasmissione dei saperi e nella cura degli spazi di coltivazione. Il lavoro di questi viticoltori sembra ripartire proprio da questo tempo ‘sospeso’, da una frattura generazionale che si è consumata; tra ciò che si è ereditato – la terra, le viti, i saperi – e ciò che occorre ri-pensare alla luce delle necessità del presente. I gesti in vigna e le attività di recupero del paesaggio vitato rivelano una visione del lavoro agricolo inteso più come cura che come investimento produttivo. Un po’ archeologo e un po’ artigiano, il viticoltore diviene custode attivo del patrimonio immateriale, muovendosi tra il recupero di frammenti di paesaggio tradizionale e la loro riattivazione in chiave innovativa. Per questo, forse, c’è bisogno di dare voce a attività che, come questa, si pongono il fine non solo di produrre ma anche di dare continuità a quelle memorie materiali e immateriali che le generazioni contadine di un tempo hanno impresso nei territori.
Diario della ricerca sul territorio
“Storie di vite” non è dedicata solo alla tecnica agraria. È una ricerca di carattere antropologico, che mette al centro le persone e le loro storie. Il diario della ricerca ne propone una, raccogliendo la voce del protagonista.
Viti e segale, prendersi cura della montagna
Jonatan è un giovane di Teglio laureato in scienze naturali che è ritornato in Valtellina dove, dopo la morte del nonno, ha iniziato a coltivare le vigne di famiglia sui piccoli terrazzamenti che rendono coltivabile la pendenza. La sua biografia è una parabola valtellinese: dai ronchi e dall’agricoltura terrazzata, si è passati per la “generazione dei capannoni”, delle case e magazzini a valle lungo la strada nazionale, e dei lavori legati al trasporto e all’industria, per ritornare con lui alla montagna, questa volta con un rinnovato sguardo generazionale.
È un ibrido, come dice lui, riconoscendo le diverse traiettorie famigliari che hanno caratterizzato la sua storia, comune a quella di molti abitanti della Valtellina che si sono allontanati dalle fatiche dell’agricoltura di montagna. Nel suo caso l’eredità materiale e immateriale, la terra, le viti, la cantina così come la passione e i saperi ricevuti dal nonno tra i filari sin da quando era un ragazzino, sono diventate un solido punto di partenza per ripensare al futuro della montagna. Infatti, dalla cura delle vigne di famiglia, Jonatan ha iniziato a recuperare le numerose vigne terrazzate di Teglio che ormai si trovano in stato di abbandono. Camminando sui sentieri del versante retico, la parte illuminata e coltivata della vallata, si possono riconoscere le vigne abbandonate dalle cime dei pali di sostegno che emergono dai rovi, un paesaggio che incarna la storia recente delle piccole proprietà di montagna.
Se pensiamo a come la viticoltura terrazzata fino alla metà del secolo scorso sia stata elemento fondamentale di ogni economia famigliare valtellinese possiamo anche comprendere come la trasformazione delle relazioni economiche e famigliari caratterizzate dalla migrazione verso aree urbane abbia modificato il paesaggio locale. Da quando ho iniziato a seguire sul campo Jonatan, dal dicembre 2015 a oggi, le vigne da lui lavorate continuano a crescere: a volte è lui che, attraverso le reti di conoscenza locale, si propone ai proprietari ormai anziani; altre volte sono proprio loro che gli chiedono di prendersene cura, per non dover vedere le loro vigne in uno stato d’incuria. È così che ogni volta che torno a Teglio, vedo Jonatan lavorare in vigne nuove, a volte fatte di pochi ceppi messi in riga tra la pietra madre del versante e lo strapiombo verso valle.
Anche la forma delle viti è ibrida, portando con sé “la mano” delle diverse generazioni che l’hanno potata. Una forma che può essere modificata solo nel tempo lento di diverse stagioni. Imprimere nuove forme alle piante richiede di confrontarsi con ciò che è stato ereditato e di indirizzarlo, attraverso gesti pazienti, verso una propria visione.
I gesti di Jonatan durante la potatura non erano una semplice ripetizione di quelli appresi sotto la supervisione del nonno ma una sua continua sperimentazione. Per esempio il tradizionale archetto valtellinese in cui il capo a frutto viene ricurvato verso il basso e all’indietro verso la pianta facendo prendere alla vite una forma involuta su se stessa, viene liberato in un unico tralcio disteso sul ramino che consente alla vegetazione primaverile di far passare aria e sole.
La sua visione di vigna e “vino buono” è cambiata, così come i suoi gesti che lentamente s’imprimono sulla forma delle piante ereditate. Il mio campo con Jonatan è stato anche nel web, sui social, attraverso cui mi sono resa conto di come nuove forme di reti, che partono anche dal virtuale, prendono forma intorno al paesaggio montano. Come mi disse lui, “che cosa fa un contadino del 2000 quando piove? Scrive su facebook”.
In effetti attraverso il suo blog ha costruito una rete effettiva di collaborazione intorno al suo progetto di recupero, che per il momento “rimane una passione e non un’attività che da rettito, coinvolgendo persone che volevano imparare il lavoro in vigna e che condividevano la visione della montagna come alternativa da costruire. Le viti e i terrazzamenti non sono pensati da soli, isolati dal resto del paesaggio montano e dall’agro-diversità che fino al passato recente lo caratterizzava. È così che la cura di vigneti, che per il momento “rimane una passione e non un’attività che da reddito”, non è per lui un impegno diverso dal recupero con l’associazione Orto Tellinum composta da diversi ragazzi e ragazze di Teglio, delle sementi autoctone di segale e grano saraceno.
Le Alpi Orobie, oggi per lo più disabitate, sono diventate la loro banca di semi, dove recuperano i campi e coltivano le vecchie varietà alpine, impedendone l’ibridazione con le varietà d’importazione con caratteristiche infestanti. Retiche e Orobie sono pensate come un unico paesaggio in cui la montagna diventa un rinnovato luogo di vita.
Guarda il WebDoc:
Photogallery
Di seguito, una selezione di scatti fotografici tratti del progetto Storie di vite:
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Approfondimenti
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