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A che punto è la Terra? Beat Plastic Pollution: la Giornata mondiale dell’Ambiente


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Se tutti i Paesi consumassero quanto l’Italia, quest’anno il pianeta avrebbe già esaurito le risorse che è in grado di rigenerare nel corso di 365 giorni.

E le avrebbe consumate, per la precisione, dal 15 maggio, che secondo il Global Footprint Network è stata l’overshoot day italiano, giorno, appunto, dello “sforamento” o del “sovrasfruttamento”.

Si tratta, di fatto, del bilancio naturale della Terra, e sebbene nel nostro Paese non si sia registrato un anticipo rispetto alla data del 2022, questa coincidenza è la prova che non siamo ancora in grado di assestarci su un livello di consumo delle risorse sostenibile e rispettoso dei tempi della natura. Soprattutto se si tiene conto che appena mezzo secolo fa l’overshoot day mondiale cadeva il 14 dicembre.

Traiettorie di futuro

D’altronde, la sensazione che qualcosa si sia incrinato nel rapporto col futuro trova conferma negli effetti violenti e incontrollabili di una crisi climatica che sarebbe illogico, ad oggi, fingere di non vedere.

Di un mondo in pericolo – che arde di siccità, affoga nelle alluvioni, perde i ghiacciai e continua a essere saccheggiato dalla poca cura dell’uomo – vuole ricordarci la Giornata mondiale dell’Ambiente, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e celebrata ogni anno il 5 giugno

Data che, rievocando la prima Conferenza ONU sull’ambiente organizzata a Stoccolma dal 5 al 16 giugno del 1972, sollecita tutte e tutti a fare la propria parte per la costruzione di un futuro più verde e accogliente, attento alla biodiversità, rispettoso degli ecosistemi, sempre più proiettato verso modelli di economia circolare.

#BeatPlasticPollution

Sono traiettorie di futuro che partono da scelte piccole ma radicali, come lo slogan di quest’anno, #BeatPlasticPollution, invita a fare, ripensando il nostro modo di consumare e smaltire i prodotti, in particolare in plastica monouso.

Secondo l’Onu, infatti, «ogni anno vengono riversati negli oceani ben 8 milioni di rifiuti plastici» e ogni minuto, nel mondo, viene acquistato 1 milione di bottiglie di plastica, di cui solo una piccolissima parte sarà poi riciclata.

Ancora: «Le materie plastiche, comprese le microplastiche, sono ormai onnipresenti nel nostro ambiente naturale. Stanno diventando parte della documentazione fossile della Terra e un indicatore dell’Antropocene, la nostra attuale era geologica».

Ma come viene vissuta la questione ambientale da cittadini e cittadine?
Quale percezione si ha del cambiamento climatico
e delle politiche di sviluppo sostenibile?

Un’indagine inedita raccolta in 15 Paesi europei del progetto SOLID dice, ad esempio, che «più alto è il livello di istruzione, maggiore è il sostegno alle priorità politiche dell’UE in materia di investimenti verdi e sociali, mentre è vero il contrario per quanto riguarda le politiche di protezione sociale, che sono sostenute soprattutto da individui con un background educativo inferiore.

È interessante notare che gli anziani tendono a essere meno sostenitori delle politiche di protezione sociale, mentre i giovani (18-24) sono i più favorevoli agli investimenti sociali e agli obiettivi verdi.»

Evidenziando, quindi, un “divario eco-sociale”, ossia uno scarto tra i cittadini che sostengono politiche sociali e/o verdi. Oltretutto le questioni ambientali sarebbero percepite come un problema più europeo che nazionale:

«È così in tutti i Paesi del campione ma il gap tra salienza del problema ambientale a livello europeo e a livello nazionale è minore negli stati del Nord Europa, dove storicamente la sensibilità verso le tematiche ambientali è stata sempre superiore, rispetto a quelli del Sud e dell’Est.»

→ Leggi l’indagine del progetto SOLID

Per accrescere la consapevolezza attorno a rischi e opportunità, e accelerare l’adozione di interventi adeguati, secondo Adeline Otto, ricercatrice post-dottorato presso KU Leuven – tra i relatori del workshop The New Priority? Public Opinion, Politics, and Policies in the Age of Climate Change ospitato dal Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università Statale di Milano il 12 maggio – «è fondamentale coinvolgere attivamente le persone nel processo decisionale. Le politiche dovrebbero anche prevedere misure di sostegno che agevolino la transizione ecologica e assicurare che le famiglie meno abbienti non subiscano un impoverimento energetico o legato alla mobilità».

 

Se si guarda, poi, alle aziende, la faccenda si fa più ambigua, perché mentre le etichette dei prodotti sbandierano una verdissima inclinazione al cambiamento, dall’altro il 53,3% delle asserzioni ambientali esaminate in UE sono vaghe, fuorvianti o inconsistenti, mentre il 40% è del tutto privo di fondamento.

Scrive Sofia Francescutto:

«Da quando, a partire dai primi anni ’90, la sostenibilità ambientale ha cominciato ad occupare l’interesse (e le preoccupazioni) dei consumatori, i brand hanno risposto con incoraggianti prese di posizione che oggi si dimostrano, nella migliore delle ipotesi, fuorvianti. Quello che inizialmente era nato come green marketing pensato per indirizzare al meglio le scelte degli acquirenti, oggi sconfina nel greenwashing, lasciando il passo ad una comunicazione che sfrutta le inquietudini dei consumatori e capitalizza la crescente domanda di prodotti e comportamenti a basso impatto ambientale attraverso affermazioni imprecise, poco chiare e difficilmente verificabili.»

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A esigere trasparenza e correttezza dovrebbero essere prima di tutto le istituzioni, comunitarie e nazionali. Federica Genovese, Professoressa Associata all’Università dell’Essex, insiste sul valore della cooperazione internazionale per mitigare in fretta gli effetti della crisi, definendola «vitale, perché il cambiamento climatico rappresenta un problema globale senza precedenti, causato dalle emissioni di gas serra provenienti da ogni Paese del mondo. Tuttavia, è essenziale che i Paesi siano disposti a collaborare. Purtroppo, negli ultimi dieci anni, la cooperazione internazionale ha subito una battuta d’arresto.»

 

 

Viene allora da chiedersi: possiamo ancora salvare il pianeta? «C’è un’eccessiva percezione della difficoltà che ci attende – commenta Malcom Fairbrother, professore di Sociologia all’Università di Umeå (Svezia) e all’Università di Graz (Austria) –. Sicuramente la società deve cambiare. Le economie devono trasformarsi, le industrie devono evolversi e le nuove tecnologie devono essere sviluppate ed implementate. Tuttavia, in passato, abbiamo dimostrato di essere in grado di affrontare e risolvere i problemi ambientali quando ci abbiamo realmente provato. È importante non considerare questa sfida come insormontabile. Siamo in grado di farcela. Ma dobbiamo agire subito.»

 

 

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