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History Camp – La democrazia non è il mercato


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Il 9 novembre 1989, quando insieme al Muro di Berlino crolla l’unica alternativa al capitalismo partorita dal Novecento, sotto le macerie rimangono sepolte anche le sinistre, già provate dalla grande crisi internazionale che era stata annunciata dai surriscaldamenti inflazionistici e dagli scompensi valutari della fine degli anni Sessanta.

Da allora i partiti di sinistra, incapaci di comprendere verso cosa galoppavano le società europee, non hanno saputo farsi interpreti delle trasformazioni del lavoro, delle categorie sociali, dei flussi di immigrazione ed emigrazione, né tantomeno delle nuove forme di azione collettiva.

Le conseguenze sono i tratti del presente che abitiamo: una moltiplicazione dei muri, gli influssi dei populismi, l’impennata delle destre e, ancor più, lo svelamento dell’inganno della globalizzazione.

Di fronte a un mondo che per certi versi può dirsi effettivamente unito, ci scontriamo con l’ampliarsi di fratture preesistenti e l’aprirsi di nuove faglie: una realtà fortemente diseguale, smisurate concentrazioni di ricchezza, nuove povertà, il dominio di un settore privato senza regole, un ruolo imprecisato dello Stato e il riaccendersi della guerra come strumento per manipolare gli equilibri della scena globale.

In questo quadro, allora, è possibile ricostruire i motivi e rintracciare gli snodi cruciali per cui le sinistre hanno perso la capacità di proporre un’alternativa alla globalizzazione per come è stata realizzata finora?

Si può pensare, oggi, di ristrutturare la relazione tra sinistre e popolo? E ancora, le sinistre possono effettivamente tornare a incarnare una promessa di benessere e riscatto sociale?

Di tutto questo abbiamo discusso attorno ai tavoli di lavoro dell’History Camp. La democrazia non è il mercato, lo scorso 24 marzo, radunando in Fondazione Feltrinelli circa cento storici da tutto il mondo, insieme al curatore del Camp Marc Lazar, a François Hollande, Mario Del Pero, Donald Sassoon, Clara Mattei, Carlo Trigilia, Maurizio Ferrera. Un percorso di indagine che continuerà ad accompagnarci nel corso dell’anno con il ciclo di workshop 1989 – Sulle macerie del muro.

«Che la sinistra sia in arretramento è un dato innegabile – scrive Lazar su la Repubblica –. Vive un declino elettorale incontestabile. Un ricercatore greco, Gerassimos Moschonas, uno dei maggiori esperti della sinistra europea, ha dimostrato recentemente che i dodici maggiori partiti socialdemocratici del Nord Europa nel decennio 1950-1959 raccoglievano mediamente quasi il 35% dei consensi, mentre nel periodo 2010-2022 riuscivano a intercettarne soltanto poco più del 22%. Inoltre, tutti i partiti di sinistra registrano una caduta del numero degli iscritti e del loro peso intellettuale e culturale, soprattutto fra le giovani generazioni e i ceti popolari.»

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E tra i fattori che hanno contribuito a mettere in crisi il campo progressista, la metamorfosi del mercato del lavoro – con il nuovo sistema di organizzazione e produzione delineato a partire dagli anni ’90 dallo sviluppo delle nuove tecnologie e della logistica del trasporto – gioca un ruolo significativo. Se n’è discusso insieme ad Andrea Fumagalli e Alberto Prunetti, evidenziando come

«mentre il lavoro si trasformava, le forze politiche di sinistra sono rimaste ancorate alle loro pratiche tradizionali. I sindacati non si sono accorti del nuovo precariato, e non hanno saputo adattarsi al passaggio dall’uniformità della classe lavoratrice a un’eterogeneità e frammentazione della stessa. Non è stato capito che la figura operaia non era scomparsa, ma stava cambiando pelle, e servivano quindi nuove parole d’ordine.»

→ Leggi il report a cura di Jacopo Caja

Lo racconta bene Elia Zaru:

«Lo smantellamento delle grandi concentrazioni produttive, l’uso di forme contrattuali “atipiche” (ormai pienamente tipizzate) in grado di aggirare le norme più stringenti a tutela del lavoro introdotte negli anni Sessanta e Settanta, la diffusione del modello dell’auto-imprenditorialità, il dilagare del precariato: questi fenomeni, che caratterizzano le nostre latitudini dalla fine degli anni Ottanta, sono stati, a un tempo, il presupposto e il risultato della crisi delle forme collettive di azione, organizzazione e rivendicazione della classe operaia.»

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Partito o non partito?

Cambiamenti finanziari, rivoluzioni digitali, rodaggio di modalità produttive nuove: tutti elementi che impongono alle democrazie di evolversi, di adattarsi. Ma quali partiti sono riusciti a reagire?

E dove ha sbagliato la sinistra per arrivare a una perdita tanto profonda del contatto con le persone?

Abbiamo provato a rispondere con Piero Ignazi e Marco Almagisti, posando lo sguardo sulle occasioni per ricucire la frattura con un elettorato sempre più sfiduciato e azzardando.

«un ossimoro per il partito del futuro: un partito di massa leggero, che consideri la rete come strumento di abilitazione e non come fine teleologico. Un partito che tenga il contatto verticale tra vertice e base ma soprattutto il collante orizzontale tra comunità di diverse dimensioni, anche avvalendosi della tecnologia ma senza rinunciare alle proprie liturgie.»

→ Leggi il report a cura di Ludovica Taurisano


 

La terza via come fine di un progetto alternativo

A questo scollamento tra sinistra e popolo, ha provato a porre un argine il rinnovamento programmatico condensato negli anni della Terza Via.

Parentesi politica dalla quale, tuttavia – si è osservato insieme a Gerassimos Moschonas e Mario Ricciardi

«la socialdemocrazia non esce più forte. La sua situazione oscilla invece tra lo stagnante, come in Italia, e l’inesistente, come in Grecia e in Francia.
Dopo l’iniziale entusiasmo, i socialisti perdono voti a favore della destra, e successivamente dell’estrema destra».

→ Leggi il report a cura di Jacopo Tramontano 


Atlantismo ed europeismo

Se poi dilatiamo ancora la prospettiva, altre sono le questioni che complicano la postura e le relazioni tra le sinistre in Europa.

Allo scoppio della guerra in Ucraina – com’è emerso dalla discussione guidata da Mario Del Pero e Donald Sassoon  – una delle domande al centro del dibattito pubblico italiano è stata:

“Perché l’Europa dovrebbe fare gli interessi statunitensi e non i propri?”.

E in effetti, «le categorie “europeismo” e “atlantismo” sono essenziali per comprendere le direttive della politica estera e di difesa della maggior parte dei Paesi UE, e perché la posizione della UE rispetto alla NATO non è cambiata in modo rilevante negli ultimi 30 anni. E si tratta di una storia in cui le sinistre europee sono state protagoniste, in parte per volontà in parte per negligenza.»

→ Leggi il report a cura di Nicolò Donati 


Viene automatico allora chiedersi: qual è la posizione della sinistra rispetto all’Unione Europea? Qual è stato il ruolo dei partiti e dei movimenti di sinistra in relazione al processo di integrazione europea?

Più in generale,

«di fronte alla rottura dei confini e dalla libera circolazione di merci, capitali e persone portate dalla globalizzazione, in uno scenario che vede il superamento del dualismo “capitalismo-comunismo”», con Giandomenico Piluso e Lucia Coppolaro abbiamo indagato i modi attraverso cui le politiche strutturali europee hanno provato a rafforzare la coesione economico-sociale e a compensare gli effetti deleteri derivanti dall’esposizione a una maggiore competizione.

→ Leggi il report a cura di Manuela Verdino


Migrazioni, vite, agende politiche:
sinistra e populismi

Così come a turbare le sinistre sono temi come migrazione e immigrazione, integrazione delle popolazioni straniere, questioni di genere e le lotte transfemministe.

Battaglie culturali che avrebbero dovuto essere sostenute da politiche di inclusione, di sviluppo economico e di welfare, ma su cui l’orientamento della sinistra si è mantenuto sempre piuttosto cauto, perché – come emerso nel tavolo di lavoro coordinato da Marc Lazar e Valeria Galimi – a prevalere era il

«timore di scontentare il proprio elettorato, non avendo così il coraggio di fare quel passo necessario che avrebbe – forse – saputo spostare gli equilibri esistenti.»

→ Leggi il report a cura di Elena Cadamuro


Conflitto e violenza nazionale e internazionale

Ancora, se è vero che «tutta la politica inizia con miliardi di conflitti», ed è proprio la biodiversità di idee e visioni a tenere in vita la democrazia e a sollecitarne il sistema immunitario, è però altrettanto innegabile – come si è ragionato nel gruppo di lavoro di Andrea Ruggeri e Andrea Romano – la difficoltà della sinistra di posizionarsi rispetto a contrasti e violenza, com’è accaduto, ad esempio, nel dibattito sul sostegno militare all’Ucraina. In questo senso,

«la gestione del conflitto e della violenza, specialmente nella sfera internazionale, risultano intimamente connesse anche al tema degli investimenti e delle spese militari,
della difesa comune europea e dell’autonomia strategica
dagli Stati Uniti d’America.
Tutto ciò richiede, da parte di una sinistra riformista e radicale,
una urgente e critica riflessione sul posizionamento da assumere rispetto a queste tematiche.»

→ Leggi il report a cura di Emma Baldi

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