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La caduta di Kabul: pensare diritti, libertà e democrazia in termini di XXI secolo


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La condizione che si è aperta la mattina del 15 agosto a Kabul ci riguarda. Da molti punti di vista.

È stato detto da molti osservatori come quel disimpegno lento non sia iniziato negli ultimi due anni, ma che abbia due eventi simbolici non detti.

Il primo: il 2 maggio 2011, ovvero il giorno della morte di Osama Bin Laden. Si sostiene che quella data abbia lentamente segnato un lento «smarrimento di missione». O che quello fosse lo scopo principale (è il tema su cui il presidente Joe Biden ha insistito in queste settimane).

Il secondopetrolio. Autosufficienza energetica raggiunta nel 2018. Obiettivo «imbullonato», nei termini di alleanze economiche e politiche con il «Patto di Abramo».

Forse conviene considerare queste due variabili non come elementi di cinismo, ma come le sfide che abbiamo davanti. Perché entrambe costituiscono un’argomentazione potente del nuovo potere a Kabul e delle potenze economiche che agiscono come sostenitori della nuova condizione. La Cina, prima di tutto, poi, con molti problematiche non risolte e non facilmente risolvibili, la Russia, quindi la Turchia.

Il nodo è in quella dimensione di anti-Occidente che ha assunto la scena di Kabul e la matrice di “liberazione” che avrebbe quella scena.

Prima domanda: Quali sono le sfide che quella scena impone?

Seconda domanda: a quella sfida si risponde ancora in termini di conflitto irriducibile tra “Occidente” e “dispotismo”?

Sono due domande che contengono in esse molti temi ma che non consentono di essere svolte presentando lo stesso menù di 20 anni fa. Quel ricettario ha perduto. Quella che viene indicata come “sconfitta dell’Occidente” sarebbe esattamente nel reiterare il paradigma culturale che mise in essere quella scelta.

Dal 15 agosto se l’obiettivo è costruire percorsi di libertà allora quel fine non è più, né sostenibile né «vendibile» battendo quella strada.

Trovare vie di risposta per la libertà implica riaprire complessivamente, e declinare sotto altra forma, la battaglia per la felicità umana. Questa battaglia non è l’esportazione della democrazia.

Per declinare il concetto di libertà «in termini di XXI secolo», nel tempo dell’obiettivo della sostenibilità, forse il fronte drammatico da aprire non è più quello delle forme di rappresentanza della politica, ma quello della possibilità di un equilibrio del pianeta, della redistribuzione del benessere, dove al centro stanno – senza possibilità di mediazione – o gli interessi di «tutti» o la prosperità dei signori dell’energia; dove il tema di una etica ambientale non è più solo una questione ecologica di “aria pulita”, ma di diritti alla vita della prossima generazione.

Ce lo siamo detti molte volte in questi anni, ma sempre pensando che questa fosse una battaglia pedagogica. Oggi se vogliamo pensare «in termini di XXI secolo» dopo Kabul 15 agosto 2021, occorre assumerla come sfida politica.

Le sfide per domani passano per la rimessa in discussione di chi decide, con quale diritto decide, per chi decide. Una questione che ci riguarda tutti in prima persona: qui e là; a Sud e a Nord del mondo; a Washington, a Roma, a Mosca, a Istanbul, a Pechino nelle molte terre del disagio dell’Africa, e anche a Kabul.

Il futuro si costruisce solo mettendo radicalmente in questione le certezze del proprio presente su uno sviluppo che non può avere le forme, le regole, gli stili, le categorie dei modelli di comportamento e di consumo che hanno caratterizzato chiunque, anche coloro che vivono nell’indigenza come conseguenza delle scelte dei «signori locali del bene» che si presentano come garanti del loro futuro.

“Utopia” in una parola.

Oggi esiste una sfida di realismo indotta dall’utopia.

Pensare futuro in forma scomoda per le abitudini consolidate nella quotidianità. Non è una novità: da sempre le donne e gli uomini associati hanno costruito con incertezze e con molte perplessità tentativi di presente, sfidando i luoghi comuni del proprio tempo.

Nella storia dell’umanità nessuno ha mai superato il vuoto dell’abisso, con tanti piccoli salti, credendo così che, senza slancio, si possa evitare di precipitare nel vuoto.

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