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Liberi ma eguali: il nodo della costruzione di coalizioni sociali per un’alternativa politica


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Con l’affermazione a livello globale del modello leolibersita, le democrazie hanno visto l’ascesa di partiti che tanto a destra quanto a sinistra trovano nel populismo e nell’attacco estremizzato al sistema la loro forza elettorale. Per fare fronte a questa sfida, il centrosinistra deve trovare il modo di ricompattare attorno a sé un sistema di alleanze fra gruppi sociali di estrazione diversa, attraverso nuovi orizzonti comuni e trasversali

 

Con la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’esperienza del socialismo reale, in assenza di un modello di organizzazione dell’economia alternativo a quello capitalista, si era pensato che l’unica prospettiva concretamente percorribile fosse quella del libero mercato e della concorrenza. Ciò ha portato all’affermazione pressoché egemone, a livello globale, di quella cultura neo-liberista, di cui il cosiddetto Washington consensus è stata la massima espressione, che ha contrassegnato gli ultimi trent’anni.

In quella fase, anche le soluzioni politiche offerte da una prospettiva progressista e di sinistra, almeno nel mondo occidentale, hanno dovuto adattarsi alla narrativa neo-liberista. Secondo un’indovinata espressione dell’economista Dani Rodrik, un mercato globale è quello in cui “i salari sono fissati a Shenzhen, il prezzo del capitale a New York, le imposte alle Isole Cayman”. E adattarsi a queste dinamiche ha significato, per la sinistra degli ultimi trent’anni, accontentarsi di regolare in seconda battuta soltanto alcuni degli effetti distributivi del mercato globale, in una logica di rigore economico principalmente finalizzata a limitare il raggio di azione dell’intervento pubblico per poter rispettare i vincoli di bilancio.

Dani Rodrik

Ciò ha inevitabilmente comportato un accrescersi delle diseguaglianze in termini di reddito e ricchezza, così come un progressivo impoverimento di quel ceto medio che era stato protagonista degli anni d’oro della crescita economica e dell’espansione dei sistemi di welfare. Oggi, nel momento in cui il modello neo-liberista del mercato globale sembra ormai in crisi, mentre si ripropone con forza la questione distributiva – non nella percezione dei diretti interessati, ma sicuramente dal punto di vista di osservatori e studiosi – il tema dei rapporti fra libertà economica e di impresa e altri diritti di cittadinanza emerge in tutta la sua forza come aspetto decisivo. Sia rispetto alle condizioni di eguaglianza da assicurare ai cittadini, sia rispetto alla salvaguardia dell’ambiente naturale, delle specie animali e delle nuove generazioni da garantire per il futuro del Pianeta.

In via del tutto ipotetica le soluzioni politiche disponibili per risolvere i rapporti fra libertà economica e di impresa e altri diritti di cittadinanza sono potenzialmente infinite. Anche se in chiave teorico normativa la questione che tali soluzioni pongono in gioco è sostanzialmente sempre la stessa: fino a che punto sia possibile giustificare limitazioni della libertà economica e di impresa in nome dell’affermazione di altri diritti di cittadinanza. E in quale misura limitazioni di portata significativa possano incontrare il consenso necessario per affermarsi senza traumi nel contesto di una società democratica.

Socialismo partecipativo

Tuttavia, dalle proposte di riforma nel segno del “socialismo partecipativo” di Thomas Piketty a L’Avenir en Commune di Jean-Luc Mélenchon, giusto per fare due esempi assai noti, molte soluzioni messe attualmente in campo da una parte della sinistra non sembrano affatto porsi questo problema, delegando agli esiti della competizione elettorale e alla possibilità di mutati rapporti di forza da essa determinati la possibilità di creare le condizioni più favorevoli all’affermazione di una linea politica progressista. Ed è assai probabile che le recenti affermazioni di partiti e movimenti populisti abbiano ulteriormente accresciuto la convinzione che sia possibile recuperare consensi e conquistare il governo formulando una proposta politica in grado di coniugare protesta anti-sistema e rivendicazioni di natura redistributiva.

 

Jean-Luc Mélenchon

 

I recenti esiti delle elezioni legislative francesi, che hanno fatto registrare un buon successo sia della Nouvelle Union populaire écologique et sociale di Mélenchon (sebbene inferiore alle attese) sia del Rassemblement National di Marine Le Pen, sembrerebbero confermare che questa sia la strada giusta. Tuttavia occorre osservare come proprio il caso francese sia indicativo di una situazione politicamente contraddittoria e irrisolta: i buoni risultati elettorali di Mélenchon e Le Pen non stanno a significare che l’uno o l’altra abbia vinto. E la polarizzazione nel sistema politico francese – anche a seguito della distanza ideologica che ormai si misura fra l’estrema destra del Rassemblement National, la sinistra del Nouvelle Union populaire écologique et sociale e le altre forze dell’arco repubblicano – lascia intendere che né Mélenchon né Le Pen eserciteranno un ruolo importante nella guida della Francia.

Il problema del consenso e delle alleanze sociali tende perciò a ripresentarsi, mostrando come la via anti-sistema e populista, anche quando declinata da sinistra, non sia sufficiente a permettere l’affermazione di una nuova prospettiva progressista. Il fatto che sia destra sia sinistra, nel momento in cui offrono soluzioni di stampo populista, si trovino accomunate da una diagnosi anti-sistema caratterizzata da molti ingredienti simili, per poi scegliere di percorrere strade in larga parte diverse rispetto alle cure, ha il solo effetto di creare un campo politico irriducibilmente conteso e instabile.

Marine Le Pen

Viceversa, la ricerca del consenso e delle alleanze sociali necessarie a sostenere una proposta politica progressista dovrebbe cercare di conquistare un insieme di settori della società sufficientemente ampio da favorire l’efficace implementazione delle sue strategie di riforma. Ciò tuttavia non significa che non sia possibile operare in direzione di provvedimenti importanti. La lotta ai paradisi fiscali, che è anche fra i punti della proposta di “socialismo partecipativo” avanzata da Piketty (2020) e che lo scorso anno ha condotto a un accordo nel G20 su una tassa minima globale per le multinazionali, rappresenta un ottimo esempio.

Thomas Piketty

Un’intesa su questo punto potrebbe in prospettiva portare anche ad accrescere il tasso di imposizione sulle imprese e aumentare le imposte sui redditi e sui patrimoni più elevati. Qui ovviamente si tratta di estendere e consolidare una possibile coalizione sociale che potrebbe trarre diversi benefici da provvedimenti di questo genere. Inoltre, bisogna iniziare ad affermare una semantica o una narrativa delle società avanzate a sostegno di una nuova cultura politica di sinistra, in grado di determinare il baricentro di una possibile iniziativa trans-nazionale a favore di politiche redistributive per ottenere esiti duraturi e strutturali, in termini di riduzione delle diseguaglianze e incremento delle opportunità di mobilità sociale.

La configurazione di una coalizione sociale abbastanza ampia e stabile da sostenere, per un arco di tempo ragionevolmente lungo, una nuova cultura politica di sinistra resta perciò un problema irrisolto, soprattutto perché a ben vedere dovrebbe includere attori, ceti e gruppi sociali caratterizzati da aspettative sempre più diverse e divergenti. Possiamo realisticamente ipotizzare che essa debba includere classi urbane in condizioni stabili di reddito (non diciamo benestanti) e culturalmente progressiste, giovani generazioni, classi medio basse in condizioni di crescente deprivazione relativa, minoranze etniche.

Ma come è possibile mettere in campo un’alleanza di questo tipo? Sembra assai difficile, soprattutto per le condizioni in cui si trovano le società occidentali. Da un lato perché in queste società le basi per la costruzione di nuove identità collettive, in grado di dare forma ai soggetti di una nuova cultura politica di sinistra, sono state ampiamente compromesse dall’affermazione di relazioni sociali sempre più individualizzate. Dall’altro perché le nuove modalità di organizzazione sociale della produzione economica, dalla gig-economy allo smart working, hanno ormai soppiantato la fabbrica e l’azienda come luogo privilegiato di aggregazione dei lavoratori.

Ciò rende molto complicato non solo mettere insieme una coalizione sociale in una nuova prospettiva progressista, ma anche aggregare nel medesimo soggetto collettivo l’insieme degli individui appartenenti ai diversi ceti e gruppi sociali che potenzialmente potrebbero trarne vantaggio.  

Nell’orizzonte della società individualizzata di massa, il problema di una coalizione sociale progressista richiede perciò un’attenzione privilegiata sia alle dinamiche di individualizzazione del sé nel contesto di un mondo globalizzato sia ai processi di costruzione delle nuove forme di identificazione collettiva, rispetto all’insieme dei meccanismi che determinano la configurazione delle identità individuali e collettive. I cambiamenti che contraddistinguono il sé nell’epoca della globalizzazione sono per lo più riconducibili al divario tra aspettative e realizzazioni sperimentato da individui diversi, a partire da condizioni sociali diverse.

La distinzione fra “vincenti” e “perdenti” della globalizzazione rintraccia il proprio significato in questi processi: con i “vincenti” che, muovendo da posizioni di centralità e vantaggio sociale, hanno avuto modo di mettere a frutto con successo la dilatazione delle opportunità sperimentata già a livello individuale; e i “perdenti” che, collocati in posizioni di marginalità e svantaggio sociale, hanno viceversa subito le contraddizioni dell’incertezza sul futuro combinata con i limiti di uno sviluppo economico che non era più in grado di garantire condizioni di benessere generalizzato.

L’accrescersi del numero di individui fragili per dotazioni culturali, sociali ed economiche lasciati soli al proprio destino, congiuntamente alla scarsità di risorse economiche destinate alla neutralizzazione delle condizioni di svantaggio, ha quindi dato luogo a una miscela esplosiva. Insicurezza e timori per il futuro hanno contribuito in maniera decisiva, da un lato, ad accrescere il bisogno di certezze, alimentando nuovi fondamentalismi, dal radicalismo religioso al nazionalismo identitario; dall’altro, a diffondere comportamenti passivi e indifferenti tipici della cultura di massa, dall’anti-politica alla critica generalizzata nei confronti delle élite.

A fronte di queste dinamiche, l’astratta razionalità strumentale di apparati tecnico-economici ai quali sono stati delegati sempre più ampie funzioni decisionali in assenza di una legittimazione democratica, e lo sviluppo di élite politiche autoreferenziali rimodellate nella forma di una classe professionale omogenea stabilmente strutturata all’interno delle istituzioni statali, hanno favorito l’ondata populista alla quale oggi assistiamo nella maggior parte delle democrazie occidentali.

Victor Orbàn

Rompere questo gioco perverso è oggi una condizione necessaria per riuscire a consolidare un sistema di alleanze fra gruppi sociali di estrazione diversa, a sostegno di una prospettiva progressista in grado di avere una reale possibilità di successo. Anche perché al fondo del problema della coalizione sociale persiste un generalizzato clima di sfiducia che contraddistingue i rapporti fra i potenziali protagonisti di tale coalizione, soprattutto fra classi urbane progressiste in condizioni stabili di reddito e classi medio basse in condizioni di crescente impoverimento. In una società individualizzata di massa, l’innesco delle forme di etero-riconoscimento necessarie per rimuovere tale sfiducia non può infatti prescindere dall’effettiva comprensione di ciò che, negli ultimi trent’anni, è stato sperimentato in termini di cambiamento del sé, soprattutto da parte di chi si è suo malgrado ritrovato ai margini del mondo globale neoliberista.

Questa è l’unica strada percorribile per permettere la costruzione di nuove forme di identificazione collettiva in grado di sottrarsi alla condanna dell’autismo politico che alimenta la prospettiva populista. Compensare il deficit nel gioco del sé che si è determinato fra i “perdenti” della globalizzazione, neutralizzando insicurezze e timori che ne hanno alimentato la propensione anti-politica, è una strada che devono anzitutto percorrere i partiti. Abitare la distanza che separa la politica dai cittadini, e sforzarsi di porre rimedio alla crisi di legittimazione di cui i partiti sono testimoni impotenti da ormai troppi anni, dovrebbe essere l’impegno prioritario dei partiti stessi nei prossimi anni.

Emmanuel Macron

I partiti non dispongono più delle risorse organizzative, culturali e simboliche su cui hanno potuto contare per larga parte dell’ultimo secolo e mezzo. Ma non possono rassegnarsi a rivestire in chiave difensiva un ruolo di rappresentanza esclusivamente istituzionale, al di fuori delle condizioni sociali, culturali e politiche in cui tale rappresentanza si concretizza e in assenza delle quali essa risulterebbe un vuoto esercizio di potere. Ritornare a essere specialisti della rappresentanza, per i partiti di oggi, non è certamente un’impresa facile, come più in generale non è facile dare forma a una nuova cultura politica di sinistra, in grado di affrontare le sfide del mondo di oggi. Ma per chi avverte ancora la necessità di impegnarsi a favore di una società migliore, si tratta di un’impresa che ha senso prendere in considerazione.

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