Un tema molto importante sul quale impatta l’inflazione è anche quello della redistribuzione intergenerazionale, prevalentemente a seguito dell’impatto di quest’ultima sul deficit e sul debito pubblico. Semplificando, sono due i canali principali attraverso i quali l’inflazione può impattare sul rapporto debito pubblico/PIL: la crescita del PIL nominale e i tassi di interesse. In linea teorica, un aumento dell’inflazione porta a un aumento del denominatore del rapporto, il PIL nominale, spingendo il rapporto verso il basso. Viceversa, l’inflazione porta i creditori a chiedere rendimenti più alti che li ripaghino dell’erosione del capitale e dunque a un rialzo dei tassi di interesse nominali, che coincide con un notevole aumento della spesa dello Stato per il pagamento degli interessi. Questo significa un aumento del deficit, che dunque accresce il numeratore.
Mentre l’effetto sul denominatore è istantaneo, l’effetto sul numeratore (sui tassi d’interesse) è più lento in quanto la stragrande maggioranza dei titoli di Stato non è indicizzata all’inflazione e dunque il tasso di interesse medio non si adatta all’inflazione sino a quando il debito non viene totalmente (o quantomeno in larga parte) rinnovato. Questo meccanismo fa sì che l’inflazione eroda la parte di debito pubblico non ancora rinnovata, risultando dunque in una perdita per coloro che l’avevano sottoscritta.
Tuttavia, negli ultimi 30 anni c’è stata una costante e severa riduzione della percentuale di debito sottoscritta dalle famiglie (oggi attorno al 5-6%). Il debito oggi risulta in larga parte in mano a banche e istituzioni finanziarie e dunque, quantomeno da questo punto di vista, il tema dell’erosione del risparmio delle famiglie risulta residuale.
Riassumendo, se a breve termine non sembrano esserci particolari problemi e anzi l’inflazione sembra essere utile quantomeno nell’abbassare il peso del debito, nel lungo periodo, se l’inflazione non avrà influito sulla differenza fra tasso di interesse e tasso di crescita del Pil, i due effetti si compenseranno.
Se invece, mano a mano che il debito sarà rinnovato, le condizioni dell’indebitamento continueranno a essere peggiori rispetto a quelle degli ultimi mesi, potrebbero sorgere dei problemi. Al netto delle parole rassicuranti arrivate negli scorsi giorni dalla Bce, il ripiombare del termine spread nella vita quotidiana e le condizioni delle recenti emissioni di titoli di Stato italiani descrivono molto bene il motivo di queste preoccupazioni. Sta tornando appetibile l’investimento sul rischio Italia e stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio calcolano già un aggravio di costi pari a 20 miliardi nei prossimi 3 anni.
A prescindere da quanto queste stime scoraggeranno i partiti dal promettere la luna nella imminente campagna elettorale, il rischio che i giovani dovranno sopportare una maggiore “zavorra”, ovvero un più alto debito pubblico domani, rimane dunque concreto. E questo è vero soprattutto per quei Paesi che sotto questo aspetto sono storicamente meno virtuosi come il nostro, l’Italia, dato l’elevato debito pubblico (che ammonta a poco più di 2700 miliardi) che, se letto in percentuale al Pil, si aggira attorno al 150%. Infatti, seppur rientrato dopo le ultime smentite, ci sono maggiori fibrillazioni sui mercati rispetto agli ultimi anni, accompagnate da un crescente timore di una nuova crisi del debito, anche alla luce delle parole usate da Christine Lagarde, in parte corrette dalle successive dichiarazioni nelle quali sostiene che “ci sarà un intervento per sostenere in modo mirato i Paesi più penalizzati da questa politica monetaria”.
Già la pandemia e i necessari interventi di mitigazione del rischio messi in campo non avevano fatto altro che aumentare il deficit e dunque il debito pubblico, il quale sta lì a ricordarci che anche di disuguaglianza intergenerazionale ci si deve occupare. Pertanto, a prescindere dalla magnitudine del nuovo e ulteriore deficit, quello che è chiaro è che i giovani di oggi fra decenni si troveranno nella condizione di dover destinare una parte delle entrate fiscali per rimborsare le spese per interessi del debito emesso oggi.
Infatti, in questa evenienza il nuovo debito sarà rimborsato con imposte future. E sul peso futuro di questo nuovo debito inciderà molto il “come” verrà utilizzato: se questo sarà utilizzato per aumentare l’istruzione terziaria, per creare nuove e migliori tecnologie e infrastrutture strategiche, allora i redditi più alti di domani ne faciliteranno il ripianamento. Viceversa, se il debito sarà utilizzato per finanziare gli ennesimi consumi insostenibili o progetti con poco ritorno economico (vedi i miliardi spesi negli ultimi anni per una miriade di bonus), le generazioni future avranno soltanto più oneri.
Analisi di Demopolis
Un’analisi di Demopolis risalente alle scorse elezioni politiche in Italia evidenziava come 1 giovane su 2 (under 25) non fosse intenzionato a esercitare il proprio diritto di voto. Il non voto è sicuramente in parte gonfiato dai cosiddetti astensionisti “involontari”, ovvero quei giovani studenti che si trovano a dover fare viaggi molto lunghi per poter tornare a votare al proprio comune di residenza, stimati dall’Istat nel 2017 in circa un milione (500mila domiciliati in una regione differente, secondo la stima di Osservatorio Talents Venture). Ma non per questo è un problema meno importante.
La pandemia non ha fatto altro che peggiorare questa situazione, facendo calare ulteriormente la fiducia dei giovani nei partiti politici e nel governo, soprattutto nei territori caratterizzati da istituzioni deboli. È presto per valutare quale impatto abbia avuto su questo fronte la guerra in Ucraina, tuttavia il decremento generalizzato dei partecipanti al voto alle elezioni amministrative del 12 giugno sembrerebbe indicare un ulteriore calo. A ogni modo, come recita un articolo di qualche anno fa uscito sul The Economist, “Quando i giovani non votano la democrazia rischia grosso”.
Giovani disamorati della Politica significa giovani non rappresentati, e questo è ancora più vero in un Paese in calo demografico come il nostro che, nelle parole del Presidente dell’Istat, perderà 12 milioni di abitanti di qui al 2070. Questi dati sono un campanello di allarme per le giovani generazioni.
Nelle società che invecchiano, gli anziani evidenziano più partecipazione al voto e, per questioni strettamente legate alle diverse prospettive e aspettative di vita, si preoccupano meno della disoccupazione rispetto al cittadino medio; naturalmente ciò è inevitabile viste le esigenze diametralmente opposte rispetto a quelle dei giovani. Tuttavia, essendo questi ultimi inattivi politicamente, quelle che dovrebbero essere le loro istanze sono destinate a rimanere inascoltate – se non, addirittura, a non essere nemmeno prospettate – e i politici sono sempre più incentivati a rappresentare queste tendenze. Il rischio è che gli adulti di domani decidano sempre meno il mondo di domani. Emblematico al riguardo è il voto al referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE del 2016, dipeso in larga parte dal voto dei pensionati.
A tal proposito Runciman, politologo all’Università di Cambridge, ha provocatoriamente proposto di abbassare l’età del voto a 6 anni, al fine di controbilanciare la crescente discriminazione generazionale nelle democrazie. C’è anche chi propone l’obbligatorietà del voto (che è già legge per esempio in Australia e in Belgio). Rimuovere gli ostacoli che hanno impatto sul voto dei giovani dei quali abbiamo parlato prima, parlare di più di educazione civica nelle scuole, abbassare l’età del voto a 16 anni e trovare il modo di coinvolgere di più i giovani nel dibattito pubblico sarebbe sicuramente una buona soluzione.
Tuttavia, se il primo interrogativo che potrebbe trasparire da queste poche righe è “Quale futuro per i giovani?”, è necessario accompagnarlo con un altrettanto importante quesito: “Quale presente?”.
In mezzo alla tempesta, risultano necessarie politiche per contenere gli effetti negativi di cui abbiamo parlato. È altresì importante che PNRR e Next Generation EU vadano nella direzione giusta, per disegnare un presente e un futuro dignitoso e di opportunità ai giovani italiani a tutti i livelli di istruzione e in tutto il Paese.
Leggi anche l’articolo precedente del ciclo: Inflazione e generazioni: i giovani scoprono (a loro spese) l’inflazione. Quali conseguenze?