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A vent’anni dalla guerra in Iraq:
il fallimento dell’interventismo


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Il ventesimo anniversario dell’invasione anglo-americana dell’Iraq non potrebbe cadere in un momento meno opportuno.

Non soltanto perché, nel pieno dell’invasione russa dell’Ucraina, l’anniversario rischia di riportare in superficie quello che in molti sembrano impegnati a rimuovere: il fatto che un processo di rilegittimazione surrettizia dell’uso della forza fosse già in atto da più di vent’anni, spinto dapprima dal cosiddetto interventismo umanitario degli anni Novanta del Novecento e poi, ancora più a fondo, dalla logica strategica e retorica della guerra globale al terrore.

O il fatto ancora più imbarazzante che, se l’aggressione russa all’Ucraina ha incontrato almeno la reazione di una parte consistente della comunità internazionale e della cosiddetta opinione pubblica mondiale, quella anglo-americana all’Iraq venne invece giustificata, assecondata e, molto presto, scusata da innumerevoli studiosi, commentatori e persino organizzazioni internazionali – comprese le stesse Nazioni Unite e l’Unione Europea che, solo quattro anni dopo l’aggressione, si spinsero fino a nominare inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente (costituito insieme a Stati Uniti e Russia) uno dei due maggiori responsabili della guerra, l’ex Primo ministro britannico Tony Blair.

Una crisi che colpisce l’ordine internazionale

Tutto questo basterebbe già a segnalare l’incombenza di una sorta di crisi costituente dell’ordine internazionale: una crisi che investe alcuni dei princìpi e delle norme fondamentali della convivenza (a cominciare da quelle che dettano chi e a quali condizioni può ricorrere legittimamente all’uso della forza) e, nel frattempo, apre lo spazio per le strategie opportunistiche e le violazioni di tutti i principali attori. Ma quello che rende ancora più significativo l’anniversario della guerra in Iraq è che esso ci riporta indietro a un contesto internazionale che, a soli vent’anni di distanza, appare già quasi l’opposto del nostro.

Tanto per cominciare, un contesto dominato sia strategicamente che retoricamente dalla cosiddetta “guerra globale al terrore”, all’interno della quale venne forzatamente inscritta la stessa guerra in Iraq – sulla base del doppio pretesto del presunto possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, oltre che dei suoi rapporti ancora meno credibili con Al-Qaeda.

In secondo luogo, e quasi come contraltare delle dichiarate necessità strategiche dell’intervento, la guerra poté ancora essere razionalizzata e legittimata come uno strumento di esportazione armata della democrazia, in accordo con le aspettative proprie dell’ordine internazionale liberale dell’inevitabile espansione di mercato e democrazia, e del legame tra questa espansione e la promozione della pace e della sicurezza internazionale.

Infine, l’invasione del 2003 e la lunga guerra insurrezionale e contro-insurrezionale che ne seguì costituirono, insieme alla contemporanea avventura afghana, l’ultima manifestazione della disponibilità degli Stati Uniti e dei loro principali alleati a sobbarcarsi direttamente i costi di grandi imprese militari di intervento e stabilizzazione, quali quelle che avevano già condotto nei Balcani nel decennio precedente.

Di tutto ciò non resta più traccia nel contesto attuale.

La guerra globale al terrore è stata soppiantata sul terreno strategico dallo scontro aperto con la Russia in Europa e da quello montante con la Cina nell’Indopacifico e, sul terreno retorico, dalla nuova rappresentazione dualistica del sistema internazionale in chiave di contrapposizione tra democrazie e autocrazie.

L’esportazione della democrazia non figura più nell’agenda politica degli Stati Uniti e dei paesi europei, in parte perché le democrazie stesse non si rappresentano più in espansione bensì sotto assedio e, in parte ancora maggiore, poiché mano a mano che si acuisce lo scontro con la Cina cresce la tentazione di non andare troppo per il sottile nella scelta degli alleati.

Soprattutto, la fase dell’interventismo “umanitario” e “democratico” dei primi due decenni del dopoguerra fredda appare irreversibilmente conclusa, travolta dall’insostenibilità politica ed economica degli impegni, dal conseguente ripiegamento della vocazione egemonica degli Stati Uniti e, soprattutto, dallo spostamento del baricentro politico, economico e strategico del mondo verso l’Indopacifico e, a suo interno, l’Asia orientale.

Guardata alla luce del mondo nel quale ci troviamo oggi, la guerra contro l’Iraq e l’intera fantasmagoria della guerra globale al terrore si rivelano per quello che, tenendosi ai margini degli imperativi politici e culturali alla mobilitazione, avrebbe potuto essere intravisto sin dal principio (e, non a caso, cominciò a essere quasi comunemente riconosciuto già tra il 2004 e il 2005 e, comunque, almeno a partire dal 2008, quando l’imperativo divenne esplicitamente come adottare una exit strategy): un colossale fallimento politico e militare, una dissipazione di risorse politiche, militari e reputazionali in una vicenda secondaria ma, soprattutto, il segno di una incomprensione ancora più macroscopica della natura e dell’evoluzione complessiva del sistema internazionale.

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