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8 agosto 1991: l’invenzione (del problema) dell’immigrazione


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L’8 agosto del 1991 fu il giorno in cui l’immaginario degli italiani sulle migrazioni cambiò in maniera drastica e, a trent’anni di distanza possiamo dirlo, durevole. Per decenni alle parole migrazione e migranti erano state associate le immagini degli abitanti del Meridione d’Italia che salivano sui transatlantici diretti nelle Americhe, oppure sui treni diretti a nord, fosse quello italiano o quello europeo. Invece l’8 agosto del 1991 l’arrivo nel porto di Bari della nave mercantile Vlora, partita da Durazzo, col suo carico di quasi ventimila persone provenienti da un’Albania in piena crisi, portò con sé un’immagine destinata ad imprimersi nelle menti non solo dei cittadini pugliesi ma di tutti gli italiani che seguirono gli eventi alla televisione: quella di una mobilità non più in uscita ma in entrata, non numericamente limitata ma consistente, o almeno non più tanto limitata da poter essere invisibile. Una mobilità che chiamava il paese di arrivo e i suoi abitanti a fare i conti con la necessità di ripensare il ruolo dell’Italia nel contesto internazionale, a rivedere i rapporti con le popolazioni vicine e meno vicine, e anche a riconsiderare, in prospettiva, la composizione della propria società.


L’immigrazione non è una sorpresa

Niente di tutto ciò era iniziato l’8 agosto: l’Italia era un paese di immigrazione da prima del 1991 (Colucci 2018, De Cesaris 2018). Persone provenienti da paesi esteri sono presenti nel Paese in quantità numericamente ridotte già nel secondo dopoguerra; il loro numero era poi cresciuto negli anni ‘60 e soprattutto ’70. Se è vero che l’immigrazione in Italia iniziò ad assumere nuove dimensioni e a consolidarsi negli anni ’90, già negli anni ‘80 il fenomeno era ormai visibile, così come iniziavano ad essere visibili i limiti della mancata attenzione dello Stato italiano ai migranti presenti sul territorio nazionale: a partire dall’incapacità di conoscere i numeri reali degli stranieri in Italia, per proseguire con l’incapacità di garantire loro diritti sociali e diritti come lavoratori. Anticipata nel 1986 dalla legge Foschi, che rese possibili soprattutto i ricongiungimenti familiari, nel febbraio 1990 fu approvata la prima legge articolata sull’immigrazione, la legge Martelli.

L’approvazione non avvenne senza contrasti: il tema della lotta all’immigrazione aveva iniziato ad essere utilizzato all’interno di competizione elettorali nel 1989, in particolare dall’MSI; contemporaneamente la Lega, per bocca del suo leader Umberto Bossi si era opposta alla legge e in generale alla prospettiva di una società multietnica, anticipando la strategia che il partito avrebbe utilizzato in futuro per proporsi non più solo come difensore degli interessi della parte settentrionale del Paese, ma di tutta la nazione. Allo stesso tempo la legge Martelli, seppure poi ritenuta lacunosa soprattutto per quanto riguarda le parti relative all’accoglienza, era stata fortemente sollecitata da una mobilitazione senza precedenti di sindacati e associazioni antirazziste, attivata da un clamoroso fatto di cronaca: l’omicidio del rifugiato sudafricano Jerry Masslo avvenuto nel 1989 nelle campagne di Villa Literno (CT), dove Masslo lavorava come bracciante. Il suo assassinio, cui seguirono i funerali di Stato, aveva posto gli italiani di fronte sia all’evidenza della presenza straniera in Italia, sia alla mancanza di diritti attorno a cui essi dovevano organizzare la propria esistenza.


Agosto 1991, lo spartiacque

L’immigrazione in Italia non iniziò dunque l’8 agosto del 1991, né in quella data fece la sua prima comparsa nel dibattito pubblico o in quello politico. L’arrivo degli albanesi in quell’estate segnò però un nuovo corso: gli eventi di quei giorni furono “lo spartiacque che divide l’era della solidarietà da quella della paura” (Garau 2015, p. 155).

Solo un anno prima, nel contesto dello sgretolamento dello stato comunista albanese, l’Italia aveva riconosciuto lo status di rifugiati politici ai dissidenti che avevano trovato rifugio nell’ambasciata a Tirana; meno di sei mesi prima dei fatti della Vlora, 24000 persone giunsero a piccoli gruppi, via mare, sulle coste pugliesi, dove furono accolte dalla solidarietà di associazioni e gruppi di cittadini che misero a disposizione risorse, aiuti e alloggi. Il governo in quell’occasione decise di non procedere al rimpatrio, ma già a giugno dichiarò che non avrebbe accolto altri albanesi: una presa di posizione dettata dalla volontà di riconoscimento della transizione politica in corso in Albania, ma anche dalla evidente indisponibilità a fare dell’Italia un paese di accoglienza.

Da un punto di vista politico, la scelta della linea dura è da collocare anche all’interno di un contesto internazionale in via di mutazione: da una parte il crollo del muro di Berlino nel novembre del 1989, che avrebbe portato con tutta evidenza non solo alla fine degli stati comunisti al di là della cortina di ferro, ma a nuove mobilità non più represse dai governi dell’Est Europa. Dall’altra parte, l’imminente ingresso dell’Italia nell’area di Schengen, che presupponeva che il governo controllasse i flussi in entrata.

Il cambio di posizione del governo italiano si concretizzò nella gestione, disastrosa a livello statale, dell’arrivo della Vlora: di fronte a comunità e autorità locali rese impotenti, ancora prima che la nave attraccasse a Bari il governo decise che le persone che trasportava dovevano essere controllate, per evitare si disperdessero, e rimpatriate. Una decisione che contrastava con ogni valutazione di tipo umanitario sulle condizioni di arrivo degli albanesi, che divenne ancora più grave quando portò al loro concentramento – fortemente osteggiato dal sindaco di Bari – allo stadio delle Vittorie. Nei giorni che seguirono, e che precedettero i rimpatri forzati (spesso portati a termine anche con l’inganno), gli italiani videro alla televisione scene di persone, soprattutto uomini, spesso seminudi, che assaltano gli ingressi dello stadio nel tentativo di scappare; videro elicotteri che lanciavano loro acqua e viveri, come a bestie pericolose tenute in cattività per arginarne gli eccessi.


Immaginare i migranti per (re)immaginare sé stessi

Se da una parte l’arrivo della Vlora coincise con l’irrigidimento delle pratiche, quei giorni di agosto furono anche la fucina di un nuovo immaginario sull’immigrazione, veicolato tanto dalla televisione quanto dalla carta stampata: la figura dei migranti, per la prima volta, non sollecitava sentimenti di solidarietà, ma di distanza e paura. Gli albanesi arrivarono a incarnare sui giornali il paradigma dell’“alterità”, declinata in negativo: erano violenti, erano criminali, erano selvaggi (Mai 2003, Pesole 2015).

Come hanno messo in evidenza alcuni studi elaborati proprio a partire dagli anni ‘90 e sollecitati dalla crescita di fenomeni di xenofobia e razzismo, la rappresentazione dei migranti (gli albanesi come gli africani) si avvalse della riattivazione di paradigmi figli di un etnocentrismo a sua volta figlio del rimosso coloniale (Tabet 1997).

L’Italia dei primi anni ’90 non solo non sapeva quasi nulla dell’Albania e degli albanesi, ma si era dimenticata anche della propria storia coloniale ed espansionistica, che tra il 1939 e il 1943 aveva incluso l’occupazione dell’Albania. Un’occupazione particolarmente dura, non solo accompagnata, ma resa possibile da una narrazione che costruiva nelle menti degli italiani l’idea della propria superiorità e della maggiore civiltà, in contrapposizione alla inferiorità e barbarie dei popoli sottomessi. Il fatto che l’Italia negli anni della Repubblica si fosse dimenticata di quel passato, come di quello africano, non significa che quel passato non la riguardasse più, ma che non ci aveva fatto i conti: non lo aveva elaborato, non ne aveva sottoposto a critica i fondamenti, le logiche, i valori e gli immaginari. In questo contesto, i discorsi relativi alla inferiorità e alla pericolosità delle popolazioni balcaniche, elaborati negli anni del fascismo, si rivelarono strumenti a disposizione, utili per affrontare la nuova condizione non solo di paese di immigrazione, ma anche di paese parte di una comunità europea in cui le frontiere esterne contavano sempre di più (Mai 2003).

La narrazione criminalizzante, nata in quell’agosto, ha accompagnato tutto il decennio successivo e le successive crisi albanesi (Bachis 2018). Col tempo poi, come notava un articolo di Massimo Cirri pubblicato nel 2016, gli albanesi sono scomparsi dalla narrazione dei giornali: non dall’Italia, però, dove sono una delle comunità più consistenti, e dove possono arrivare seguendo percorsi meno tortuosi e pericolosi del viaggio via mare[1].  Se loro sono scomparsi, di quell’8 agosto sono rimaste molte cose: tra queste, le politiche improntate alla gestione dell’immigrazione come di un’emergenza, il mito dell’invasione, e l’idea, ancora supportata da alcuni media e da alcuni discorsi politici, che i migranti, specie se provenienti da contesti di povertà, siano portatori un’alterità naturalizzata e irriducibile da contrapporre ad una identità, italiana, altrettanto monolitica e sempre uguale a sé stessa.

 

 

Bibliografia citata

Francesco Bachis, Sull’orlo del pregiudizio. Razzismo e islamofobia in una prospettiva antropologica, Aipsa edizioni, Cagliari, 2018

Michele Colucci, Storia dell’immigrazione straniera in Italia, Carocci, Roma, 2018

Valerio De Cesaris, Il grande sbarco. L’Italia e la scoperta dell’immigrazione, Guerini, Milano, 2018

Eva Garau, Politics of National Identity in Italy. Immigration and “Italianità”, Routledge, London & New York, 2015

Nicola Mai, The Albanian Diaspora-in-the-Making: Media, Migration and Social Exclusion, Journal of Ethnic and Migration Studies, 31(3), 543-561.

Elisabetta Pesole, Genere, ‘razza’ e crisi albanese a Telenorba, in G. Giuliani, Il colore della nazione, Le Monnier, Firenze, 2015, 106-122.

Paola Tabet, La pelle giusta, Einaudi, Torino, 1997.

[1] https://www.ilpost.it/massimocirri/2016/10/11/che-fine-hanno-fatto-gli-albanesi/

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