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L’etica del riscatto: imparare da Dario Fo e Franca Rame 


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Estate 1968. Dario Fo e Franca Rame decidono di cambiare completamente l’impianto organizzativo e strutturale del proprio impegno teatrale. Così sciolgono la loro compagnia, rompono con l’ETI (Ente Teatrale Italiano, 1942-2020) che aveva in mano tutti teatri d’Italia, rinunciano ai Teatri “ufficiali” e fondano l’Associazione Nuova Scena. Una ricostruzione complessiva di quella vicenda è proposta da Federico Morgagni. 

Nuova Scena è composta da oltre quaranta giovani tra attrici, attori e tecnici; un collettivo autogestito fondato su un’assoluta parità fra tutti i componenti della compagnia tanto sul versante del potere decisionale che delle retribuzioni, che gira l’Italia presentando testi in un linguaggio e messa in scena completamente nuovi. 

Il pubblico di Nuova scena è popolare e operaio, ma la vera novità sono i luoghi in cui Nuova Scena recita: Case del popolo, palazzetti dello sport, cinema, bocciodromi, piazze (Graziella Pulce e Domenico Scarpa). L’esigenza più sentita è quella di coinvolgere una gran parte di persone che normalmente non si avvicina al teatro. È giunta l’ora che il teatro vada da loro. 

Tutto quel pubblico, quella gente, sono i loro nuovi committenti: chiedono di sentir parlare della propria storia, dei propri problemi, non per protagonismo ma per meglio capire la realtà attraverso un’informazione possibilmente ironica e grottesca. 

È la prima volta che si organizzano spettacoli in strutture che non siano teatri. Non esistevano service che noleggiassero palchi e impianti luce e fonici e quindi Dario e Franca costruiscono un palcoscenico smontabile su due piani con torrette per i riflettori. Girano con due camion e i circoli Arci che organizzano gli spettacoli si impegnano a fornire l’aiuto di venti persone per montare e smontare il palcoscenico. I due capocomici mettono anche a disposizione del collettivo tutto il loro materiale messo insieme in venti anni di lavoro: costumi, luce e fonica. 

Dario Fo e Franca Rame decidono che per poter parlare al pubblico non è indispensabile trovare un teatro.

Nuova Scena conquista in poco tempo un enorme pubblico, dando centinaia di repliche in molte regioni italiane. Alcuni spettacoli – come Mistero buffo, Morte accidentale di un anarchico, L’operaio conosce 300 parole e altri – sono divenuti notissimi. 

La loro grande fortuna, tuttavia, non era solo nel testo, ovvero in ciò che un pubblico ascoltava, ma proprio nella trasformazione degli spazi in luoghi di aggregazione. Il tema non è più chi toglie spazio, ma chi se lo riprende inventandosi opportunità non praticate. 

Perché questa storia è interessante ed è fondamentale ricordarla? Perché il motore di quella impresa sta nel riscatto, non nel piagnisteo o nella retorica della vittima. Sta nell’invenzione di un modulo che non cerca la legittimazione, o non chiede permesso.  

Dove sta la sua forza? Non nella sfida, ma nella possibilità di esprimerla. Non è solo un gesto di volontà. Quella opportunità sta nella struttura associativa dal basso, nella esistenza di una rete, nella voglia di fare. Per riprendere il decalogo in quattro punti di uno che ci ha lasciato quindici giorni fa:

«Resistere. Studiare. Fare rete. Rompere le scatole». 

Nuova Scena è composta da oltre quaranta giovani tra attrici, attori e tecnici; un collettivo autogestito fondato su un’assoluta parità fra tutti i componenti della compagnia tanto sul versante del potere decisionale che delle retribuzioni, che gira l’Italia presentando testi in un linguaggio e messa in scena completamente nuovi. 

Il pubblico di Nuova scena è popolare e operaio, ma la vera novità sono i luoghi in cui Nuova Scena recita: Case del popolo, palazzetti dello sport, cinema, bocciodromi, piazze (Graziella Pulce e Domenico Scarpa). L’esigenza più sentita è quella di coinvolgere una gran parte di persone che normalmente non si avvicina al teatro. È giunta l’ora che il teatro vada da loro. 

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