Dirigente di partito nel PSI e intellettuale critico nel dibattito marxista dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, Raniero Panzieri nella sua breve vita ha affrontato moltissimi temi, alcuni dei quali riguardanti il rapporto tra la classe e il partito, tra cultura e politica, la trasformazione del capitalismo e il lavoro di fabbrica e poi, ancora, quello della democrazia e della natura scientifica del pensiero di Marx. È stato definito “uomo di frontiera”[1] o ancora “eretico testardo” in grado di sollevare questioni scomode per gli attori politici della sinistra in quella fase, ma anche capace di agire – in virtù della sua esperienza di vita – come collegamento tra la “tradizione” delle organizzazioni e della cultura del movimento operaio e “l’innovazione” di un presente e un futuro di antagonismo sociale, i cui contorni però erano ancora tutti da definire.[2]
La sua vasta produzione ritrova oggi, a cento anni dalla sua nascita, un rinnovato interesse non solo per comprendere appieno una stagione storica fondamentale, ma anche per la contemporaneità di alcune sue intuizioni. Proprio in riferimento a quest’ultimo punto, mi limito a ricordare alcuni aspetti del suo pensiero che, a parer mio, meritano particolare attenzione in quanto spunti utili per riflettere su fenomeni e trasformazioni inerenti ai partiti e le forme della partecipazione politica all’interno delle democrazie contemporanee.
Tra questi rientra la concezione di Panzieri del partito e del suo ruolo rispetto alla classe operaia. Per Panzieri era necessario superare la concezione del partito-guida incentrato su un’identità tra partito e classe operaia, in quanto non solo non poteva darsi a priori, ma conduceva a una direzione burocratica e autoritaria.[3] Non si trattava di rinunciare al partito a favore della esclusiva spontaneità dei soggetti sociali, quanto piuttosto di rinsaldarne la relazione attraverso una verifica costante e dialettica, riscoprendo così la centralità del sociale e della fabbrica nella trasformazione dei rapporti di potere attraverso la creazione di istituzioni democratiche di base all’interno della sfera economica.
Al partito, dunque, liberato dalle gerarchie a favore di un processo di democratizzazione interno, andava riconosciuta la funzione di “strumento della formazione politica del movimento di classe” ovvero “di sollecitazione e di sostegno delle organizzazioni nelle quali si articola l’unità di classe”.[4] A questo si aggiunge l’idea della necessità del completamento della democrazia parlamentare attraverso forme di democrazia diretta e partecipazione da praticare non solo tramite i partiti, ma attraverso nuovi organismi democratici di base, sul modello dei consigli operai.[5]
Queste riflessioni naturalmente devono essere collocate in quel preciso periodo storico e interpretate come parte di quelle complesse elaborazioni teoriche volte a disegnare una via democratica al socialismo. Eppure, esistono elementi che possono aiutarci a leggere alcuni aspetti riguardanti più in generale la dimensione della politica partitica e della partecipazione nelle nostre democrazie.
Il periodo in cui Panzieri scriveva coincideva con la fase della “democrazia dei partiti”,[6] partiti che in misura maggiore o minore rassomigliavano al modello delle organizzazioni di massa, attraverso e nelle quali si partecipava e che tendevano a canalizzare le domande provenienti dalla società. E se attualmente quel modello viene spesso ricordato come il vero modello dei partiti, a partire dal quale si sviluppano le riflessioni sulla trasformazione di questi attori politici, è chiaro che già allora, come evidenziato da Panzieri, esistevano esigenze di rappresentanza e partecipazione che non trovavano piena soddisfazione.
Oggi viviamo la fase della “democrazia del pubblico”[7] o delle “post-democrazie”[8], la divisione di classe non è più l’unico cleavage e accanto ad essa nuovi conflitti sociali sono emersi, le identità ideologiche si sono gradualmente indebolite a favore di una mutevolezza delle posizioni politiche. Anche i partiti si sono completamente trasformati. Già nei primi anni Sessanta, Kircheimer[9] avrebbe introdotto il concetto di partito pigliatutto, dove il peso dell’ideologia si ridimensiona a favore di un orientamento elettoralistico volto a raccogliere il più ampio numero di voti possibile. E da lì il percorso si è poi diretto (anche se non in maniera lineare e non senza eccezioni) verso partiti caratterizzati da una centralità della dimensione parlamentare, appiattiti sulle istituzioni statali e sempre meno sostenuti da una base di iscritti.[10]
Ebbene se il contesto esterno e gli attori della democrazia sono mutati, rimangono almeno due questioni: la capacità rappresentativa e la responsiveness dei partiti; la relazione dei partiti con i gruppi e i movimenti sociali e il livello di democrazia e partecipazione interna.
Rispetto alla prima, molti autori hanno evidenziato il gap tra cittadini e istituzioni che si traduce in un incremento della sfiducia istituzionale e nella marginalizzazione di domande di ampi settori della società che non riescono ad accedere al sistema politico, rimanendo così del tutto inevase.[11] In particolare, sono proprio le classi popolari ad essere sottorappresentate, non solo per gli ostacoli di accesso alla partecipazione derivanti da vari fattori (reddito, istruzione, posizione geografica e così via), ma anche per l’assenza di canali privilegiati di ingresso nella sfera politica in un contesto di generale chiusura alle domande redistributive.[12]
Rispetto alla seconda, si è già detto come i partiti siano sempre più deboli in termini di estensione e intensità della membership, mostrando anche difficoltà di interazione con i movimenti che sorgono dal basso. A partire dalla crisi economica del 2008, in molte democrazie occidentali è sorto un nuovo ciclo di mobilitazioni sociali che hanno politicizzato il cleavage maggioranza/élite, riportando al centro delle rivendicazioni le questioni materiali, sperimentando nuove forme di democrazia diretta e rifiutando le forme convenzionali della partecipazione politica attraverso un processo di exit dai canali istituzionali elettorali. Le forze politiche tradizionali sono state sfidate da nuovi partiti challenger, che raccogliendo l’insoddisfazione dei cittadini, si sono proposti come i veri rappresentanti delle istanze sociali e del “popolo”, promuovendo nuove forme organizzative, incentrate spesso sull’utilizzo delle nuove tecnologie dell’informazione.
Anche in questi casi, però, la promessa di una maggiore democratizzazione delle organizzazioni e di un crescente coinvolgimento degli iscritti nelle decisioni del partito, è risultata essere più enunciata che poi praticata. E gli stessi strumenti digitali, mostrando quella “non neutralità” della tecnologia già sottolineata da Panzieri, sono diventati spesso più che canali di partecipazione strumenti plebiscitari, a sostegno di leadership personalizzate.
E se nell’area progressista e di sinistra permangono formazioni maggiormente sensibili alla contaminazione col sociale, esse si scontrano spesso con la difficoltà di costruire coalizioni stabili e orizzontali, agendo come strumenti a sostegno delle forme organizzative di base, rimanendo poi elettoralmente periferici. La competizione politica, infatti, oggi più che ieri, appare confinata all’ambito elettorale, e la tendenza prevalente tra i partiti, molti dei quali adottano una comunicazione populista, sembra essere quella di un progressivo ed effettivo allontanamento dai territori e dalla società. A questo si aggiunga il proliferare di forze populiste di destra, orientate a disgregare le comunità tramite la politicizzazione di temi identitari.
In sostanza, l’integrazione e cooperazione tra il politico e il sociale, tra democrazia rappresentativa e diretta, sembrano essere oggi più che mai necessarie. Così come necessario risulta – soprattutto per le forze di sinistra per definizione più sensibili al tema dell’uguaglianza – conoscere “scientificamente”, come indicato da Panzieri e dalle sue inchieste, le vere esigenze e identità delle classi popolari, alla luce di quelle nuove marginalità generate dalla crescita delle diseguaglianze economiche e sociali proprie del sistema neoliberista.
[1] Ferrero P. (2006), Introduzione. Panzieri, un uomo di frontiera, in Ferrero P. (a cura di), Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, Milano: Edizioni Punto Rosso, 30.
[2] Revelli M. (2006), Prefazione. Dimenticare Panzieri?, in Ferrero P. (a cura di), op. cit, 22, 24.
[3] Panzieri R. (1956), La crisi del comunismo, Il Punto, 10 nov.; riprodotto in Lanzardo D. e Pirelli G. (a cura di) (1973), Raniero Panzieri. Scritti interventi lettere, 1956-1960, Milano: Lampugnani Nigri Editore, 61-62.
[4] Libertini L. e Panzieri R. (1958), Sette tesi sulla questione del controllo operaio, Mondo Operaio, 2, riprodotto in Lanzardo D. e Pirelli G. (a cura di) (1973), op. cit., 113.
[5] Libertini L. e Panzieri R. (1958), La democrazia diretta e il controllo operaio, Avanti!, Milano 5 agosto; riprodotto in Lanzardo D. e Pirelli G. (a cura di) (1973), op. cit., 135-142.
[6] Manin B. (1997), The principles of representative government, Cambridge: Cambridge University Press.
[7] Ibidem
[8] Crouch C. (2005), Postdemocrazia, Roma-Bari: Laterza.
[9] Kirchheimer O. (1966), The Transformation of Western European Party Systems, in J. LaPalombara and M. Weiner (eds.), Political Parties and Political Development, New Jersey: Princeton University Press, 177–200.
[10] Cfr. Katz R.S. e Mair P. (1993), The evolution of party organization in Europe. The three faces of party organizations, American Review of Politics, 14, 593-617 ; Ignazi P. (2019), Partito e democrazia, Bologna: Il Mulino.
[11] Mair P. (2009), Representative versus Responsible Government, MPIfG Working Paper 09/8
[12] Caruso L. (2019), Introduzione. Classi popolari e partecipazione, in Bertuzzi N., Caciagli C. e Caruso L. (a cura di), Popolo chi? Classi popolari, periferie e politica in Italia, Roma: Ediesse, 23-34.