Social (democrazia)
Quello dei partiti socialdemocratici è uno strano destino,
fatto soprattutto di dimenticanze e progressivi abbandoni:
essi hanno attraversato il Novecento, trovandosi ad affrontare sfide epocali che hanno modificato profondamente la loro natura, le loro prospettive, la loro visione del mondo; eppure di questa storia travagliata fatta di aspri dibattiti, congressi infuocati e battaglie ideologiche, molto poco sembra essere rimasto.
Verso questo passato essi mostrano una specie di reticenza: quello che è successo prima della caduta del Muro di Berlino pare ormai confinato in fondo alla memoria, in uno spazio che tendono a nascondere e verso cui mantengono un certo riserbo.
Europa sì, Europa no
Prendiamo ad esempio il caso dell’Unione Europea: oggi nel vecchio continente tutti i partiti di centro-sinistra si professano fieramente europeisti, ed essi hanno condotto le loro battaglie politiche degli ultimi anni cercando di posizionarsi come i partiti più filoeuropeisti all’interno dello spettro politico. Possiamo dire che essere europeisti coincide oggi con l’identità socialdemocratica più profonda, e viceversa.
Eppure non è sempre stato così; il terzo workshop a cura della Fondazione Feltrinelli è dedicato proprio a indagare e ripercorrere storicamente i diversi modi in cui la sinistra ha risposto ai processi di integrazione europea.
Rispetto all’Unione Europea la sinistra non ha avuto sempre le posizioni che noi oggi vediamo egemoni, né tantomeno esse erano universalmente accettate da tutte le correnti interne.
I partecipanti al workshop sono stati chiamati a riflettere e porre l’attenzione sugli aspetti più rilevanti del rapporto fra la sinistra e i processi di integrazione europea, cercando di far emergere le tappe principali dell’evoluzione di questo rapporto.
Partiamo dal 1989, come ha suggerito Luigi Vergallo: in questa data spartiacque molti processi già all’opera precedentemente vennero in superficie, e da quel momento in poi la socialdemocrazia non sarebbe stata più la stessa. Cosa è successo in quegli anni decisivi per il futuro della sinistra europea?
Marc Lazar ha proposto agli ospiti di inquadrare il problema attraverso alcuni punti chiave. In primo luogo è necessario considerare il contesto storico. Non è corretto – come vuole la vulgata elettorale odierna – affermare che la sinistra sia stata sempre favorevole alla costruzione dell’Unione Europea; i partiti comunisti, ad esempio, sono stati in gran parte (soprattutto quando vennero mossi i primi passi in direzione del mercato unito) ostili all’UE. All’interno della socialdemocrazia molti partiti erano inizialmente contrari, come il Labour Party britannico e il Partito Socialdemocratico svedese, ma anche il Partito comunista italiano. Tuttavia, nel corso del tempo, l’idea che l’Europa fosse fondamentale per l’identità socialdemocratica ha preso il sopravvento, sostituendo l’obiettivo storico del socialismo in un solo paese.
In secondo luogo è necessario tenere a mente che quando parliamo dell’identità dei partiti socialdemocratici, bisogna sempre considerare il fatto che essi hanno una doppia natura: i partiti di sinistra si comportano in modo diverso quando sono al governo – dove adottano un’identità più moderata e istituzionale -, rispetto a quando sono all’opposizione, dove tendono a condurre battaglie massimaliste che difficilmente mantengono una volta al governo: prima delle elezioni i manifesti programmatici presentano generalmente una radicalità che si perde in favore dell’accettazione della cornice istituzionale europea, nel momento in cui ottengono una maggioranza parlamentare (si tratta in ogni caso di una tendenza comune a tutti i partiti, compresi quelli di destra).
Lazar ha poi posto agli ospiti una serie domande attraverso cui è possibile isolare alcuni aspetti specifici del problema: quali sono le politiche adottate nei confronti dell’Unione europea, una volta che le sinistre si sono trovate al governo?
Hanno avanzato delle proposte condivise per regolamentare la globalizzazione finanziaria, oppure esse hanno semplicemente accettato le politiche dei partiti popolari europei? E – spostandoci al campo delle relazioni internazionali – possiamo dire che la sinistra europea abbia una posizione definita in termini di geopolitica, o che essa sia favorevole all’idea di una difesa comune europea? Qual è la sua opinione sulla NATO, sulla guerra in Ucraina, sul riarmo europeo e sull’immigrazione?
In sintesi: allo stato attuale sembra difficile definire un minimo comune denominatore fra i vari partiti di sinistra quando ci si addentra nel delicatissimo campo delle relazioni internazionali, oltre che in quello economico.
Un altro aspetto significativo da mettere a fuoco riguarda il rapporto tra la sinistra europeista e la sua base elettorale, la quale spesso ha mostrato una tendenza euroscettica (come nel caso dell’elettorato olandese, italiano e, naturalmente, inglese): la base elettorale della sinistra è spesso composta da settori meno scolarizzati e appartenenti alle classi lavoratrici tradizionali che, nel tempo, si sono allontanati dalla sinistra, votando invece per partiti populisti di destra. Come può la sinistra europeista tornare a dialogare con queste categorie di elettori e, più in generale, come può riportare il mondo del lavoro e i ceti popolari a comprendere che una proposta di sinistra può essere vantaggiosa anche per loro? Ed è possibile farlo all’interno di una cornice ideologica saldamente filoeuropeista?
Unione europea:
integrazione monetaria o nuova cittadinanza politica?
Rispetto allo scetticismo della base elettorale, Roberto Castaldi ha fatto notare come esso può essere ricondotto al fatto che il dibattito interno all’Unione Europea ha portato all’implementazione dell’unificazione monetaria, ma non dell’unità della sicurezza, della difesa e della politica:
è proprio qui, secondo lo studioso, che va rintracciato il successo dei movimenti euroscettici, forti dell’idea di un’Europa dominata dai “banchieri”, secondo l’espressione antieuropeista e populista molto diffusa in tutto il continente.
In sintesi, il processo di integrazione si è svolto soprattutto sulla base di una integrazione di tipo monetario,
e non ha riguardato la cittadinanza politica: il Trattato di Maastricht ha sancito l’unione monetaria, ma non ha raggiunto l’obiettivo di unificare integralmente l’economia e la politica.
Questa circostanza, oltre a rendere più vulnerabili i paesi economicamente più deboli (come dimostrato dalla crisi greca del 2008), ha avuto delle conseguenze politiche rilevanti nei vari paesi, come ad esempio nel caso italiano, dove a partire dalla fine degli anni ’80 si assiste a una trasformazione radicale nella composizione della classe politica.
Castaldi ha chiuso il suo intervento ponendo un interrogativo molto incisivo: possiamo dire che l’entrata in campo di Berlusconi in Italia sia in qualche modo collegata al contesto creato dal Trattato di Maastricht, che di fatto sancì la fine della liquidità illimitata su cui si era basato il sistema politico della Prima Repubblica? Se, come è stato rilevato, i paesi europei si sono trovati con una sovranità politica limitata e con dei vincoli di bilancio molto più stringenti, il collasso politico che seguì Mani Pulite potrebbe essere letto anche come una conseguenza della nuova geografia di equilibri politici ed economici disegnata a Maastricht?
Sinistra europea e globalizzazione
Lucia Coppolaro ha sostenuto invece che che i governi di sinistra non si sono semplicemente adattati, non hanno semplicemente “reagito” alla globalizzazione europea: piuttosto essi hanno giocato un ruolo attivo in questa costruzione politica.
La globalizzazione non è solo un fenomeno tecnologico o un dato di fatto esogeno, esterno, che i partiti si sono trovati di fronte, ma un processo che è stato favorito attraverso decisioni politiche esplicite prese dall’UE e dai partiti di sinistra al governo: i partiti di sinistra, pertanto, hanno avuto una responsabilità politica di primo piano nei confronti della globalizzazione europea.
Gli esempi di azioni politiche direttamente imputabili all’agenda socialdemocratica volte a promuovere questi processi non mancano, come il Sistema monetario europeo del 1979, che favorì una collaborazione più stretta fra le varie banche nazionali, l’atto unico europeo dell’86, Maastricht.
Nei socialisti francesi e italiani, così come negli altri partiti di sinistra europei, era ampiamente presente l’idea che la globalizzazione avrebbe migliorato gli standard di vita e che quindi era necessario promuoverla in modo attivo e controllato: l’UE, dunque, ha cercato di governare la globalizzazione, piuttosto che rifiutarla; si è trattato dunque di una mondialisation maîtrisee, per usare la formula del socialista francese Pascal Lamy.
Tuttavia è legittimo sospettare che qualcosa sia andato storto nel processo, e che le promesse – o le speranze – nei confronti dei processi di globalizzazione non siano state del tutto realizzate: le disuguaglianze non sono diminuite (almeno in Europa), la costruzione politica dell’Europa non è avvenuta e, come ha sostenuto Goffredo Adinolfi, non esiste ancora una cittadinanza europea: i cittadini europei non si sentono pienamente rappresentati nelle decisioni che riguardano l’UE, bensì si sentono europei solo quando si tratta di “fare sacrifci”, secondo una formula poco felice che ha avuto molta diffusione nella propaganda governativa degli ultimi anni.
A seguire, e parzialmente in disaccordo con l’intervento precedente, Daniela Saresella ha affermato che negli anni ’70 si è assistito a un progressivo abbandono delle politiche keynesiane in favore della Weltanschauung neoliberale, con la sua fede nel fatto che tutti i problemi potessero essere risolti attraverso il mercato, il merito, il settore privato e la competizione come soluzione a tutti i mali.
Ciò ha portato allo smantellamento dello stato sociale, con i “perdenti” (i tristemente famosi PIGS) che non riuscivano a stare al passo e i “vincenti” che avevano successo.
Questa convinzione che il merito fosse alla base del successo ha ignorato gli svantaggi iniziali di partenza e ha promosso un’ideologia della performance, ormai del tutto egemone nei partiti di centro-sinistra, lontani dalle loro elaborazioni dottrinarie originarie.
La domanda – assolutamente decisiva – che è emersa all’interno del workshop è dunque se la sinistra non sia stata in grado di rispondere ai processi di globalizzazione per “incompetenza politica” o “subalternità” (come ha sostenuto Saresella) oppure se, come sostiene Lucia Coppolaro, ci sia stata una intenzionalità deliberata, una precisa volontà politica di governare i processi storici nella direzione dell’iperliberismo e del monetarismo europeo. In altri termini: possiamo dire, come una parte della sinistra radicale afferma, che la sinistra di governo sia stata davvero subalterna alle politiche iperliberiste che hanno caratterizzato l’Europa dopo il crollo dell’Unione sovietica, oppure, come ha sostenuto Coppolaro, che i partiti socialdemocratici non siano stati affatto subalterni, ma che anzi siano stati essi i principali attori politici responsabili di questo processo?
La risposta, naturalmente, non serve solo a chiarire una questione di carattere storiografico, ma serve anche a gettare luce sul presente e sul ruolo storico delle sinistre nello scenario politico del futuro.
Quando si parla di globalizzazione, tuttavia, è necessario tenere a mente che l’attuale globalizzazione, come sottolinea Giandomenico Piluso, rappresenta una seconda fase di globalizzazione. La prima fase si verificò alla fine del XIX secolo e si interruppe bruscamente con la prima guerra mondiale, che causò una cesura e scatenò una guerra civile europea durata trent’anni: questo evento segnò la fine della prima ondata di globalizzazione. In questa seconda fase l’UE, sebbene non abbia svolto un ruolo significativo nella produzione di tecnologie, è stata uno degli attori principali nella creazione di pilastri istituzionali.
A monte, il problema strutturale dell’UE consiste nel fatto che si tratta di un progetto di integrazione in cui gli Stati nazionali (e, di conseguenza, le sinistre al governo) mantengono la propensione a promuovere i propri interessi nazionali, i quali possono essere in linea oppure (più spesso) in contrasto con gli interessi e con il progetto europeo condiviso. Un altro problema riguarda la struttura asimmetrica delle istituzioni europee, in cui i soggetti con maggiori risorse tendono a influenzare le politiche dell’Unione senza assumersi le responsabilità legate alla leadership; ciò crea una verticalità del potere, accentrato e non democratico, e una collettivizzazione dei danni e delle perdite.
L’integrazione economica senza un’adeguata integrazione politica, inclusa un’unione fiscale, ha portato secondo Piluso alla mancanza di strumenti efficaci per contrastare e ridurre le disuguaglianze, in particolare nel campo fiscale. Le politiche economiche da sole non sono sufficienti e rappresentano uno strumento inefficace di intervento, dal momento che gli Stati non hanno il potere e le capacità di agire in modo adeguato o definitivo.
Domenico Capone ha contestato l’affermazione secondo cui i partiti socialisti europei si siano piegati al pensiero neoliberista senza resistenza; al contrario, all’interno di questi partiti si è sviluppato un dibattito sulle politiche economiche e sociali, come nel caso del Partito comunista italiano: non solo Cossutta e Natta, ma anche il primo Napolitano era piuttosto critico nei confronti dell’Unione europea, salvo poi cambiare posizione negli anni successivi, il che dimostra come sia esistito un lungo e tortuoso dibattito interno.
Ma l’autoriflessione interna dei partiti socialdemocratici è forse oggi arrivata a una nuova consapevolezza: come ha notato Massimiliano Boni, mentre fino a poco tempo fa i partiti socialdemocratici provavano a tenere, almeno formalmente, una certa parvenza di vicinanza al loro elettorato tradizionale, oggi invece essi rivendicano più o meno apertamente di essere “il partito della ZTL”, dell’establishment, dell’upper class:
e se da un lato essi possono vantare di essere stati quelli che negli ultimi decenni hanno garantito la tenuta governativa (cioè di avere rappresentato l’alternativa più credibile al pericolo populista), ciò che manca loro, secondo Boni, è una riflessione su quanto invece, nel corso di questo processo, abbiano perso in termini elettorali. Il prezzo pagato per essere diventati partiti di governo è stato quello della rottura con la loro classe sociale storica di riferimento, la classe lavoratrice, i cui voti sono finiti in gran parte nell’astensione – oppure a destra, come ha sostenuto Marc Lazar.
Il tema del mancato incontro elettorale fra centro sinistra e classe di riferimento è ritornato diverse volte nel corso delle riflessioni degli ospiti. Lucia Coppolaro ha messo in luce come in realtà è piuttosto difficile parlare di “politica di sinistra” europea sulle questioni commerciali ed economiche: la posizione della sinistra sulla politica economica europea si è caratterizzata per la mancanza di una visione univoca e omogenea; i partiti di sinistra rappresentavano gli interessi nazionali dei rispettivi paesi e, di conseguenza, avevano opinioni contrapposte tra di loro.
La Socialdemocrazia Tedesca, ad esempio, è stata spesso associata a politiche economiche di orientamento liberale, focalizzate sulla promozione della competitività e del libero mercato. Al contrario i laburisti inglesi, così come i partiti socialisti francesi, hanno adottato posizioni più protezioniste, mettendo l’accento sulla tutela dell’industria nazionale e dei lavoratori. Anche i partiti socialisti dei paesi del nord Europa, come i Paesi Bassi o la Svezia, hanno seguito una linea protezionista in economia. Allo stesso modo, i socialisti italiani hanno avuto una tradizione di politiche economiche incentrate sulla difesa dei settori strategici nazionali e sulla protezione dei lavoratori.
In generale, non è mai stata delineata una posizione di sinistra comune sulla questione del commercio internazionale. Le differenze di approccio e gli interessi nazionali hanno portato a una frammentazione delle posizioni all’interno della sinistra europea: tale mancanza di coesione e di visione condivisa sulla politica economica ha reso difficile per la sinistra europea presentare un fronte unito e influenzare in modo significativo le decisioni prese a livello europeo in materia di commercio internazionale.
In conclusione, l’analisi storica del rapporto tra la sinistra e i processi di integrazione europea rivela un quadro complesso e articolato. La sinistra europea ha mostrato diverse posizioni nei confronti dell’UE nel corso degli anni, e non è stata sempre accolta unanimemente da tutte le correnti interne. I governi di sinistra hanno giocato un ruolo attivo nella costruzione dell’Europa politica, promuovendo la globalizzazione controllata e favorendo l’integrazione dei mercati.
Tuttavia, le promesse di una maggiore prosperità e uguaglianza non sono state pienamente realizzate, e la crisi economica e finanziaria ha evidenziato le disuguaglianze e la mancanza di una cittadinanza europea pienamente rappresentata e coinvolta nelle decisioni dell’UE, come è stato messo in evidenza dagli ospiti.
A sua volta, come messo in luce da Roberto Castaldi, se la globalizzazione ha portato nel vecchio continente un aumento delle disuguaglianze, essa ha di contro portato significativi miglioramenti delle condizioni di vita per una vasta parte della popolazione mondiale. L’interconnessione economica, le opportunità di scambio culturale e la diffusione di tecnologie hanno contribuito a ridurre la povertà, a migliorare l’accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria, nonché a favorire la crescita di diverse nazioni in via di sviluppo. Tuttavia, la sinistra europea ha spesso trascurato di riconoscere appieno questi benefici e, dimenticando forse l’ideale dell’internazionalismo, ha portato avanti una narrazione che, da un lato, si è posta in netto contrasto con la globalizzazione e, dall’altro, ha esaltato questi progressi senza enfatizzare adeguatamente l’aspetto della solidarietà internazionale.
Processi d’integrazione europea
Il dibattito si chiude con una riflessione di Marc Lazar sulla distanza che esiste fra la classe dirigente dei partiti socialdemocratici a livello nazionale ed europeo: fra di loro, spesso, non c’è una vera e propria comunicazione, e quello che avviene a Bruxelles è indipendente e autonomo rispetto a quello che avviene nei parlamenti nazionali.
Lazar ha poi aggiunto che, nonostante nel corso del Novecento il rapporto tra i partiti socialdemocratici e i processi di integrazione europea sia stato caratterizzato da una complessa interazione di dinamiche e posizioni contraddittorie, oggi l‘Europa ha fatto notevoli progressi nel conquistare l’opinione pubblica, nonostante l’euroscetticismo che ha trovato eco in diverse aree politiche.
Gli stessi partiti che sostenevano la Brexit come soluzione hanno successivamente abbandonato tali posizioni (emblematico il caso del partito guidato da Giorgia Meloni): da un lato, essi hanno potuto constatare come l’implementazione della Brexit abbia comportato notevoli complicazioni e conseguenze negative per il Regno Unito; d’altro canto, i sondaggi di opinione hanno chiaramente indicato che la maggior parte dell’opinione pubblica desidera rimanere nell’Unione Europea.
Pertanto, nonostante le divergenze all’interno dei partiti socialdemocratici e i vari cambiamenti di posizione, l’identità socialdemocratica si è sempre più legata all’idea di Europa: quanto questo cammino abbia giovato sul piano elettorale, o quanto questo abbia contribuito ad approfondire la distanza già profonda fra la socialdemocrazia e la sua classe di riferimento, è difficile stabilirlo.
Il workshop si chiude quindi con una serie di domande che mirano a fornire delle direttive di riflessione per meglio affrontare le sfide del presente.
Leggi gli approfondimenti
Europa nella globalizzazione
Leggi l’articolo
di Marc Lazar