Il problema reale di cui parliamo è la crisi del modello socialdemocratico (o, se si preferisce, del compromesso tra capitale e lavoro) su cui, in buona parte, si era fondata l’ “età dell’oro”, i trent’anni “gloriosi” di sviluppo dell’economia dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra.
Una crisi dei fondamenti del modello evidenziata già prima del suo manifestarsi con la fine del sistema di Bretton Woods e la guerra del Kippur: penso, ad esempio, per restare all’Italia, alle riflessioni di Luciano Cafagna alla metà degli anni ’60 sulla fine della classe operaia come “classe generale” e di conseguenza alla necessità di un aggiornamento ideologico del socialismo internazionale, in rapporto all’accelerazione dello sviluppo capitalistico, alla diffusione del benessere economico, al declino della forza di attrazione del comunismo, agli sviluppi dell’integrazione europea, alla crisi dell’equilibrio internazionale fondato sui due blocchi.
Nel 1973 era stato poi pubblicato il libro di James O’Connor sulla “crisi fiscale dello Stato”, che indicava le conseguenze del declino demografico sui bilanci degli stati del mondo occidentale. Questioni epocali del cui impatto i partiti socialisti fecero fatica a rendersi conto, se non costretti, negli anni Ottanta, dalla sfida imposta dalla globalizzazione e dalla liberalizzazione dei mercati nella versione thatcheriana-reaganiana, oltre che dagli eventi dell’Est europeo, in seguito alla caduta del Muro e alla fine del comunismo.
Terza via
La risposta si concretizzò quindi nella ricerca di una “terza via” tra socialdemocrazia e liberalconservatorismo, fondata sulla ricerca di un originale posizionamento politico (il “nuovo centro” teorizzato dalla Spd di Schroeder) e sulla sostanziale accettazione delle dinamiche economiche imposte dalla globalizzazione, date per scontate e definitive.
Una visione rivelatasi, nel giro di non molti anni, non solo errata (non avendo previsto i meccanismi di rifiuto nei confronti della globalizzazione, sotto varie forme, dalla propaganda sovranista all’astensionismo di larghe fasce dell’elettorato), ma anche deleteria per le stesse fortune politiche che al socialismo si richiamavano.
PSI e Bettino Craxi
Una parabola per certi versi anticipata da quella del Partito socialista italiano e dal suo segretario, Bettino Craxi. Eletto segretario dopo le elezioni politiche del 20 giugno 1976 che videro il Psi toccare, con il 9,6% dei voti, il proprio minimo storico (ma con l’esito paradossale, come osservò Nenni, di indebolire sì il Psi sul piano aritmetico, almeno rispetto alle attese e all’ulteriore rafforzamento del bipolarismo, ma di farne l’arbitro di ogni possibile soluzione parlamentare), il problema per Craxi fu innanzitutto quello di sopravvivere e di ricostruire un gruppo dirigente.
I primi anni della sua segreteria, quelli dell’alleanza con la sinistra lombardiana, vedono l’elaborazione, culminata nel congresso di Torino del 1978, del progetto socialista per l’alternativa.
È il periodo anche del Vangelo socialista, il cosiddetto saggio su Proudhon, e della rivalsa, anche intellettuale, nei confronti della cultura comunista. Con il suo “colpo di cannone” (come lo definì Ernesto Galli della Loggia), Craxi riuscì contemporaneamente a ridare vitalità all’azione del suo partito, liberandolo dallo storico complesso di inferiorità nei confronti dei comunisti, e a delineare la possibilità di una leadership alternativa e autonoma (anche dal punto di vista finanziario…), certo anche personale, portatrice di una soluzione diversa della crisi italiana rispetto a quella consociativistica del “compromesso storico” o della “solidarietà nazionale”.
In questo modo riuscì (o almeno diede l’apparenza di riuscire, per alcuni anni) nel tentativo nel quale aveva fallito, con l’unificazione socialista, Nenni, e cioè di «trovare il modo di impostare una tematica nuova per un partito nuovo che sia il partito di tutti i lavoratori con gli apporti ideologici della tradizione e del nostro tempo, ma senza credi e dogmi. Bisogna divenire partito di governo anche se dobbiamo tornare a stare all’opposizione» (come scriveva lo stesso Nenni a Gaetano Arfè il 22 novembre 1964).
Questioni in sospeso
Restava (e resterà irrisolta) in ogni caso la questione sollevata da Norberto Bobbio in un’intervista concessa a “Mondo operaio” nell’aprile 1979, in cui sottolineava il persistere di una pluralità di anomalie presenti nel sistema politico italiano: in primo luogo il fatto che il Pci, pur con il 34% dei voti, non avesse possibilità di accedere – finita l’esperienza dei governi di solidarietà nazionale – alla maggioranza governativa, per la somma di fattori internazionali e interni (il suo “leninismo intrinseco”).
In questo quadro, sostanzialmente bloccato, il Psi, da qualunque parte si orientava a stringere alleanze, era destinato a perdere prestigio e ruolo, perché il suo ruolo strategico era quello della costruzione dell’alternativa («dell’alternanza secca di governo», per usare l’espressione del filosofo torinese). Infatti, come ribadiva Bobbio «se il Psi si riducesse ad essere il partito delle opposte coalizioni – e qualcosa del genere lo intravedo nella sua politica negli enti locali, nelle regioni – la sua rispettabilità e il suo credito ne risulterebbero gravemente danneggiati».
L’uomo forte
Il 1981 vide la vittoria di Mitterrand in Francia (e l’ascesa al potere di Reagan negli Usa), con un programma comune con il Pcf, che però sostanzialmente terminò dopo appena sei mesi, sotto i colpi della speculazione internazionale.
Contemporaneamente, al congresso di Palermo, Craxi abbandonava il progetto socialista, privilegiando l’alternanza e la governabilità, con una forte accentuazione del proprio ruolo di leader (un processo peraltro visibile anche in altri Paesi, dalla Francia alla Gran Bretagna, dalla Germania alla Spagna, contemporaneamente al declino del modello del partito di massa e alla graduale adozione di quello americano, del partito come comitato elettorale) attuata con una modifica dell’articolo 26 dello Statuto, consentendo così l’elezione diretta del segretario del partito da parte del Congresso.
Agli occhi dei militanti socialisti, come emerge da una lunga inchiesta giornalistica tra i delegati (Giorgio Rossi, Timori, speranze, orgoglio: i socialisti aspettano che il leone ruggisca, “la Repubblica”, 19-20 aprile 1981) Craxi è l’uomo che ha chiuso l’epoca di un Psi “terra di conquista per chiunque”, “colonia o sottoprotettorato dc”.
È un aspetto colto, all’epoca, anche da Giuliano Amato, che però ne sottolineava anche i rischi che si sarebbero evidenziati da lì a non molti anni: «Craxi per i socialisti non è soltanto un riformista, è l’uomo alto e forte che con la sua voce robusta e il suo linguaggio inusitatamente chiaro e pacato ha ridato a ciascuno di loro la certezza di poter sopravvivere e li ha fatti sentire finalmente forti, rispettati dagli altri.
“Abbiamo di nuovo l’orgoglio di essere socialisti”, si sente dire assai spesso ed è una delle frasi a cui chi ascolta applaude di più. È bene che sia così. Ma guai se fosse soltanto così, se questa iniezione di vitalismo fosse non una premessa ma finisse per essere il tutto. E il rischio c’è, rafforzato da un serpeggiante culto della personalità che alcuni avventatamente alimentano» (Giuliano Amato, Craxi a metà del guado,”la Repubblica”, 1 maggio 1981).
Post-Congresso di Palermo
Trent’anni dopo Rino Formica, colui che con Claudio Martelli fu uno dei promotori della modifica dello Statuto, ammise che «il partito dopo il 1981 Congresso di Palermo non fu in grado di andare oltre il revisionismo culturale e l’attivismo istituzionale. Abbandonò il terreno del rafforzamento del partito e del più vasto radicamento sociale.
Prevalse una linea superficiale: il consenso elettorale si doveva accrescere con l’azione nelle istituzioni, il consenso sociale si doveva allargare con le buone relazioni di vertice con il sindacato delle imprese e con il sindacato dei lavoratori.
In questa debolezza strutturale va ricercata la vera origine della decadenza socialista negli anni ‘80 e l’ implosione del 1992-1994» (cfr. la sua testimonianza in in Gennaro Acquaviva-Luigi Covatta (a cura di), Il PSI nella crisi della prima Repubblica, Marsilio, Venezia 2011, p. 470).
Dal lavoratore al cittadino al consumatore
L’anno dopo si tenne la conferenza programmatica di Rimini, quella dei “meriti e dei bisogni”. L’attenzione si spostava gradualmente dal lavoratore al cittadino al consumatore, in sintonia con lo “spirito dei tempi”: finalmente si usciva dagli anni di piombo, la nave tornava ad andare, per utilizzare un altro slogan di Craxi, che l’anno dopo sarebbe diventato presidente del Consiglio, mentre Berlusconi accresceva le proprie fortune imprenditoriali.
E anche se si rivendicava la continuità con il “Progetto socialista” e il Congresso di Torino, si privilegiava, fin dal titolo della conferenza, Governare il cambiamento, la governabilità rispetto all’alternativa, puntando tutto su una presidenza del Consiglio socialista.
Presidenza del Consiglio
È quello che avverrà dal 1983 al 1987. Dal punto di vista elettorale, in questi anni il PSI passò dal 9,6% delle elezioni del giugno 1976 al 14,2% del 1987. In sostanza, il PSI craxiano non riuscì mai a decollare veramente sul piano elettorale: con quella percentuale poteva svolgere un ruolo di interdizione, ma non sbloccare il sistema politico (e, peraltro, lo stesso progetto di “grande riforma”, la cui necessità Craxi aveva intuito, non riuscì mai a concretizzarsi, neanche in un programma compiuto).
Craxi era stato sostanzialmente capace di individuare le questioni di fondo del sistema politico italiano senza però avere la forza di risolverli e contemporaneamente di modificare profondamente gli assetti esistenti, finendo anzi, da quel momento in poi, per adagiarvisi.
Parallelamente all’enfasi sulla “governabilità”, si accentuava quella sul ruolo carismatico del leader: al congresso di Verona del 1984, Craxi fu riconfermato segretario del partito per acclamazione. Dalla democrazia dell’autogestione si era arrivati alla “democrazia dell’applauso” (come la definì Bobbio sulla “Stampa” del 22 novembre 1984), da Mitterrand a Ghino di Tacco.
Dopo il 1987 inizia il declino (anche fisico) di Craxi.
Il segretario del Psi che per altro aveva ha sempre nutrito, fin da giovane, grande attenzione per la realtà internazionale, frequentando i congressi delle organizzazioni mondiali giovanili, intrecciando conoscenze e amicizie destinate a durare per tutta la vita, mantenendo la tradizione internazionalista del socialismo italiano (pensiamo agli aiuti più o meno clandestini a spagnoli, greci, cileni durante la dittatura, agli esuli cecoslovacchi della Primavera di Praga e poi a Solidarnosc), non comprende (o non vuole comprendere, come peraltro quasi tutte le componenti del sistema politico italiano) il significato profondo di quanto avviene tra il 1989 e il 1992 (tra il crollo del Muro di Berlino e Maastricht), un vero e proprio cambio di paradigma, uno sblocco dello stesso sistema a quel punto non più governato da quelli che erano stati i suoi principali attori, i partiti.
Aggiungiamo che il Psi era un partito che, storicamente, anche per la propria cultura, aveva sempre sofferto di un deficit di organizzazione e di struttura, amplificato da quando si era deciso di puntare molto sulla personalità del proprio leader carismatico. Il crollo fu repentino, ma non imprevedibile, almeno per chi voleva vedere.