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Davanti e oltre i cancelli delle fabbriche

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Le sfide della facilitazione: sentirsi sicuri nel discutere le proprie opinioni

Diciamoci la verità: ognuno di noi vorrebbe accanto a sé una figura facilitatrice, qualcuno che non
ci faccia detestare i pranzi domenicali di famiglia come nei film di Xavier Dolan, o che ci aiuti a
dividere equamente le mansioni in casa, o a negoziare salari più alti senza timore di ritorsioni o
incomprensioni dentro il team, o figuriamoci nelle riunioni condominiali.


Ma mentre abbiamo dovuto imparare a cavarcela nei casi della vita appena menzionati, esistono contesti – come i processi deliberativi – in cui proprio non si può fare a meno del facilitatore.

Nelle scorse puntate di questa serie dedicata alla deliberazione, ne abbiamo parlato come di una
corrente teorica del pensiero democratico volta a integrare una visione esclusivamente
aggregativa della democrazia (basata sul conteggio dei voti in sede di elezioni) con aspetti più
discorsivi: non si tratta di far prendere direttamente delle decisioni ai cittadini, ma di agevolare la
predisposizione di arene in cui i loro giudizi e le loro opinioni possano farsi e trasformarsi nel
dialogo, per poi essere posti all’attenzione – e alla risposta – dei decisori politici.

Primi passi

Eppure, essere d’accordo sul paradigma critico-normativo che ci consente di riconoscere la
legittimità di questa procedura di innovazione e ampliamento dello standard minimo di una
democrazia, è solo il primo timido passo verso la sua realizzazione. Ci siamo chiesti in precedenza
come si selezionano i partecipanti, che differenze ci sono tra esperimenti come le Assemblee
Cittadine per il Clima e la e-democracy, come assicurare la trasparenza del metodo e dei suoi esiti:
queste sono tutte questioni pratiche fondanti nel momento in cui si traghetta il modello verso una
sua plausibile attuazione.

Supponiamo di essere sicuri che la nostra lotteria di cittadini sia effettivamente rappresentativa, che cosa succede dentro il processo stesso? Immaginatevi persone che non si sono mai incontrate prima, con storie opinioni e aspettative molto diverse tra loro, radunate attorno a un tavolo per mettere in discussione il proprio pensiero.

L’obiettivo

In fondo, il senso ultimo dei processi deliberativi è l’ascolto dell’altro, il fatto cioè di mettere in atto una comunicazione dentro una comunità: l’agire comunicativo si avvia solo quando mettiamo in
discussione le pretese di validità (sul “mondo della vita”, scrive Byung – Chul Han) e, nello scambio
reciproco, questo dubbio si estende alle nostre stesse convinzioni.

Ecco, non è una passeggiata: ci possono essere incomprensioni, autocensure, timori, aggressioni, e
prima ancora reticenze tali da impedire ai singoli individui di concepirsi come comunità transitoria
per il periodo della deliberazione.

Il discorso, che abbiamo già stabilito essere propedeutico a una deliberazione reale, non è un
percorso lineare, ma un involuto eterno ritorno fatto di smottamenti e singhiozzi, e ciò rende il
compito della facilitazione particolarmente difficoltoso. Come ha sottolineato durante il webinar
Rafaela Scheiffer, da Oficina, il facilitatore è anche un mediatore di conflitti, la cui vocazione nello
svolgimento di questa funzione deve essere univocamente quella di abilitare la creazione di
intelligenza collettiva.

Terreno condiviso

Nell’interazione cooperativa ci sono i presupposti per l’emersione spontanea di conoscenza condivisa, fatte salve alcune condizioni di contesto: per esempio garantire un safe space di espressione, guidare alla pratica dell’ascolto, avere cura della qualità del tempo condiviso, indurre i partecipanti ad avere fiducia negli altri, nel facilitatore e in ultimo nell’occasione deliberativa a cui stanno dedicando la propria presenza.

Per Sophie Guillain da ResPublica, che di facilitazione ha esperienza diretta e su scale varie di amministrazione, il senso ultimo di un esercizio virtuoso dell’influenza del facilitatore è quello di “costruire il gruppo”, su un terreno condiviso e nonostante globalizzazione e iperculturalizzazione ci inducano a pensarci dentro nicchie frammentate di identità che recepiamo come inconciliabili, di un’alterità che subiamo invece che ricercare. Piuttosto che pensare a restare equidistanti, potremmo ribaltare lo sguardo e adoperare un principio di “equiprossimità”, per prendere in prestito una categoria della giustizia riparativa.

Ma l’occasione deliberativa è tale da poter convogliare le energie (personali individuali uniche e
civiche) e farle scorrere liberamente per mutare in impulsi politici: è una cornice di conflittualità in
cui le opinioni hanno eguale diritto di presenza. Ma hanno anche la stessa autorità? Supponiamo
di doverci confrontare su temi particolarmente soggetti a rielaborazione da parte della ricerca
scientifica: l’opinione del cittadino conta quanto quella del climatologo, nelle arene deliberative?

Parità

Ebbene, sì. Per questa ragione, tra le sfide che il facilitatore deve considerare davanti a sé c’è la
lotta a un ambiente denso di disinformazione e propenso a far circolare affermazioni
“pseudoscientifiche” che per Carlo Martini, Professore Associato presso l’Università Vita Salute
San Raffaele, si confondono con preoccupante efficacia con argomentazioni razionali e di carattere
scientificamente e metodologicamente valido.

E mentre ragioniamo sull’insegnamento di media literacy e alfabetizzazione digitale che rafforzino il senso critico delle cittadine e dei cittadini del futuro, in qualità di facilitatori dovremmo tenere in considerazione l’impatto della comunicazione diffusa da parte degli “pseudoesperti” sulla polarizzazione delle opinioni, circostanza che acuisce il grado di conflittualità della deliberazione stessa.

Suggerimenti pratici

Suggerimenti pratici per non temere la radicalità dei punti di vista vengono da Iolanda Romano,
fondatrice di Avventura Urbana: le domande devono essere rilevanti, motivate, aperte ma non
troppo vaghe; l’interazione deve essere preceduta da una conoscenza personale, chiedendo ad
esempio ai partecipanti di portare al tavolo esperienze personali positive e negative; le opinioni
vanno accolte senza giudizio o manipolazione, bensì nella prospettiva di sorprendersi dentro un
pensiero guidato da inedita e collettiva creatività. Così da un processo deliberativo, che è solo un
momento da concepire dentro percorsi di medio e lungo periodo che possano riecheggiare gli uni
con gli altri, non si potrà mai uscire immutati.

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Vuoi essere invitato al ballo, o lo vuoi organizzare tu? Che forma ha la partecipazione, tra immaginazione e pratica

Può succedere che nella frenesia di organizzare eventi e creare contenuti, non ci accorgiamo che le facce attorno alle tavole rotonde e dentro i palinsesti (televisivi soprattutto) siano più o meno sempre le stesse: che cioè nel discutere di inclusività si finisca per escludere il pensiero controverso, quello (il pensiero) che vorrebbe segmentare la partecipazione, quello (il pensiero) che si confina dentro spazi impermeabili, che aspira a proiezioni microlocali e vive di attitudini claniche, tutti elementi che fanno parte del dna del nostro paese.


Allora, un primo passo verso la reale inclusione è accogliere il fatto che il valore della
partecipazione non è intrinsecamente universale, che cioè esistono sacche di popolazione
per cui democrazia partecipativa e dialogo non costituiscono necessariamente delle conquiste da difendere. Il primo sforzo di inclusività dovrebbe quindi essere rivolto esattamente a chi è refrattario all’interlocuzione, per poter mostrare che esiste un’alternativa percorribile all’autarchia e all’autoreferenzialità, e che confronti intergenerazionali e trasversali non minacciano la nostra identità in termini di sicurezza: tutt’altro, la espandono, la potenziano.

Istruzioni

Ma dopo aver provato a sostanziare le fila dei difensori del valore dell’inclusività, restano
questioni pratiche da dirimere: come si fa? Come si includono le persone? Da parte
nostra, della cittadinanza tutta, occorre il massimo ascolto e il desiderio non negoziabile di
essere messi al corrente delle sorti delle nostre affaticate democrazie.

L’allineamento spontaneo degli interessi e dei valori, nella forma dei movimenti, apporta miglioramenti
indiscutibili alla vitalità di un sistema libero di rappresentanza, ma non può ingenuamente
essere pensato come forma di coinvolgimento sufficiente: è compito precipuo dell’interlocutore politico porsi le domande giuste, relative all’inclusività, affidandosi a esperti e practitioners del settore.

Per questa ragione, concludendo il percorso di webinars “We The People. The Rise of Citizens’Voice”, abbiamo cercato di raccogliere gli spunti e le suggestioni che ricercatori e facilitatori hanno potuto affinare attraverso anni di studi e  organizzazione di occasioni di partecipazione. Con Diogo Vidal (CFS – Coimbra), Francesca Fazio (Avventura Urbana) e Andrea Felicetti (Università degli Studi di Padova),
ci siamo chiesti se è sufficiente avere più donne dentro l’arena o usare linguaggi inclusivi e
schwa, o se forse non ci sono contaminazioni, sporcature di privilegio che non riusciamo a
tracciare né come amministratori né come studiosi.

Quesiti

Alcune istituzioni, inclusa l’Unione Europea che ha stabilito un Competence Centre on Participatory and Deliberative Democracy– provano a organizzare consensi raggiungendo target di rappresentanza di varie comunità, ma con quale criterio stabiliscono chi sono i gruppi strutturalmente svantaggiati? Come si copre la lista potenzialmente infinita degli interessi che dovrebbero avere voce dentro una deliberazione che riguarda questioni pubbliche?

Aggiungiamo un livello di difficoltà: se siamo chiamati a co-operare nella definizione di linee guida di policy su temi di proiezione globale (pensiamo alla temperatura e al clima, che si sottraggono alle convenzioni della cittadinanza o delle alleanza euro-atlantiche), qual è la comunità di riferimento che dovrebbe essere inclusa? Se le nostre scelte impatteranno la foresta amazzonica, dovremmo avere qualche rappresentante delle comunità indigene?

Scendiamo ancora in questa scala di complessità, e chiediamoci: siamo veramente in grado di metterci nei panni degli altri? Se la stanza non è abbastanza grande persino per i cittadini di un singolo quartiere, dovremmo cominciare a pensare che è il mondo stesso la nostra arena deliberativa? In quel caso, l’assente per antonomasia, il soggetto del tutto incapace di parlare – nel senso dialogico-discorsivo tradizionale, sarebbe la natura stessa, che dei nostri perversi atteggiamenti produttivi patisce prima di chiunque altro essere.

Infine, un ultimo sforzo immaginativo. A beneficio di chi vogliamo migliorare i nostri sistemi democratici? Gen Z, Millenial, sono tutte suddivisioni utili a rintracciare affinità, scontri, cambiamenti storici ereditati e generati, ma la principale discriminante è tra chi esiste oggi, e vive queste circostanze, e chi patirà le conseguenze delle nostre azioni e/o omissioni, cioè chi non c’è ancora. Gli assenti dalle arene deliberative sono anche i nostri figli e nipoti, e le figlie e le nipoti dei nostri vicini, di cui è nostra responsabilità civile e umanitaria, includere le sorti.

Costruire il confronto

Ogni società struttura socio-culturalmente le proprie relazioni interne, tra gruppi e segmenti, e costruisce anche una propria narrazione rispetto all’ambiente naturale. Il punto di costruire arene deliberative e di confronto realmente inclusivo è poter apprendere che esiste una varietà – che forse soltanto i romanzi o le distopie possono mettere in atto – di modi di interpretare la propria vita come abitanti temporanei della terra e come cittadini sempre transeunti di questo assetto internazionale. Ed esiste una varietà di linguaggi con cui questa diversità si esprime, di cui le aspirazioni all’innovazione
democratica deve farsi carico, sul piano teorico e sostanziale.

Se le istituzioni organizzano il ballo, noi possiamo e dobbiamo reclamare il nostro invito, ma farci carico di danzare anche in rappresentanza degli assenti involontari. E per questo, ci ricorda Lynn Hunt in Inventing Human Rights. A history, la lettura, la cultura e le arti rappresentano uno strumento imprescindibile, per allenarci all’empatia con tutti gli altri esseri, umani e non.

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