Premessa
Alla fine del 1944 Corrado Alvaro chiude L’Italia rinunzia?, il testo di apertura con cui Bompiani inaugura la collana “Tra due guerre” che testimonia di uno stato d’animo collettivo.
“Rintracciare i motivi profondi della crisi italiana e mondiale; seguire il travaglio degli spiriti che da noi e altrove, mentre sottopongono il passato a una rigorosa critica studiano i modi per preparare alla umana società un avvenire migliore; ricercare e vagliare soprattutto le idee nuove che fermentano nella tormentata vita del nostro paese e ne preparano la resurrezione è lo scopo di questa collana di saggi storici”.
Così si legge nella presentazione generale della collana.
Tuttavia, il testo di Alvaro, più che scavare contemporaneamente, si presenta come l’addio senza bilancio rispetto a un ventennio, e la salvaguardia di un postulato: anche in quel tempo, scrive Alvaro, l’unica solidarietà che resta è quella della famiglia. Insieme ritornano molti stereotipi sulla retorica de L’Italiano su cui molti anni dopo Giulio Bollati avrebbe tracciato un ritratto e una storia del carattere. Quel testo di Alvaro più che una diagnosi è la conferma di una ideologia profonda di cui il fascismo era stato il prodotto, nel mentre si impegnava a rafforzarla, dandogli nuove figure, parole, sentimenti.
Nel testo di Alvaro il dato forse più interessante è che il 25 luglio si presenta come un passaggio improvviso, ma anche come un tratto scarsamente rilevante al fine di segnare un “prima” e un “dopo”.
Anche per questo, forse, non è improprio tornare a riprendere in mano quella congiuntura e quel passaggio, ma valutandolo in un tempo diverso e non concentrandosi solo sull’evento.
Divideremo la nostra ricostruzione in quattro parti distinte. Per la precisione:
una prima parte dedicata al 25 luglio 1943 come evento; una seconda parte dedicata a ciò che precede il 25 luglio; una terza parte in cui analizzeremo alcune reazioni significative all’evento 25 luglio; una quarta parte, infine, in cui cercheremo di fornire le componenti di una “coscienza della transizione”.
Prima parte: il 25 luglio come evento
Ricordarsi del 25 luglio serve a non dimenticare che i primi ad allontanare e arrestare Mussolini – attestandone il fallimento – non sono tanto gli antifascisti, ma gli stessi fascisti e i monarchici.
Quelle 24 ore che andarono dalle 17:00 del 24 alle 17:30 del 25 luglio furono scandite da due eventi: il principale, anche nella durata temporale di 10 ore avvenuto a cavallo tra il 24 e il 25, è la seduta del Gran Consiglio del fascismo il cui voto favorevole all’ordine del giorno Grandi (dal nome di Dino Grandi all’epoca Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni) che di fatto sfiducia il leader del movimento fascista.
Il secondo, avvenuto nel pomeriggio del 25, è l’incontro tra il Re, Vittorio Emanuele III e Mussolini che termina con la destituzione da capo del Governo e l’arresto di quest’ultimo.
Su quel momento si ha molta letteratura, molte note e diari personali (comprese le note personali di Benito Mussolini comprese in Storia di un anno), ma non c’è un verbale [Gentile 2018, p. 21 e sgg.].
È proprio a partire da questo «vuoto» (l’inesistenza di un verbale) che Emilio Gentile propone Rashōmon come una metafora efficace dell’insieme degli avvenimenti che hanno luogo tra il 24 e il 25 luglio 1943. Rashōmon: il film di Akira Kurosawa costruito sulla continua riscrittura del fatto (l’uccisione di un samurai da parte di un brigante dopo averne stuprato la moglie) perché i testimoni dell’evento – la donna stuprata, ma anche il samurai ucciso evocato dal mondo dei morti, e poi l’assassino – danno ciascuno una ricostruzione distinta della scena.
Quella condizione, tuttavia, ci lascia prigionieri di una ricostruzione che, alla fine, è direttamente dipendente dal racconto orientato di ciascuno dei protagonisti.
Ci sarebbe stato spazio per accreditare una spiegazione vittimaria e complottista da parte del fascismo di quel 25 luglio. Ma questa retorica non si genera se non molto dopo, con l’8 settembre. Come ricorda lo storico Giuseppe Parlato, il 9 settembre 1943 i fascisti si riorganizzano rapidamente e riaprono le sedi del partito in tutta l’Italia settentrionale.
Non lo fanno il 25 luglio, quando il loro capo viene arrestato in una situazione non chiarissima né per chi procede all’arresto, né per chi lo subisce. Lo fanno invece tra il 9 e l’11 settembre, prima del ritorno di Alessandro Pavolini dalla Germania, prima della liberazione di Mussolini dal Gran Sasso e ben prima della costituzione della RSI: si trattava di poche centinaia di camerati, scarsamente collegati fra loro, che decidono di riaprire in buona parte del Centro-Nord le sedi del partito – questa volta chiamato, oltre che fascista, anche repubblicano, in aperta polemica con le scelte del sovrano.
Pavolini diviene capo del partito e per la prima volta nella storia ventennale del fascismo il segretario non viene nominato da Mussolini ma scelto, in maniera un po’ giacobina, dalla base.
È un tratto non marginale di una crisi che non è di un giorno e che ha tanto il carattere di avere un’origine lunga, quanto quello di segnare – nel percorso che si apre tra 25 luglio e 8 settembre – i tratti essenziali di una a fisionomia della storia d’Italia che troveremo più volte nella vicenda dell’Italia repubblicana. Qui ci limitiamo a riprendere alcuni temi appunto di quella congiuntura.
Seconda parte. Segnali di crisi
L’agonia del regime veniva certificata dalle sconfitte militari contro gli Alleati, come la cocente El Alamein in Nord Africa, già nell’ottobre del 1942, era proseguita con la presa di Pantelleria dell’11 giungo 1943, e viene resa tangibile agli italiani tra il 9 e il 10 luglio quando gli Alleati sbarcano sulle coste sudorientali della Sicilia.
La percezione della crisi è chiara agli osservatori inglesi e americani e non sfugge al Centro studi del Ministero dell’informazione a Vichy, in cui lavora Angelo Tasca.
Il profilo del rapporto sugli avvenimenti italiani che Tasca stende a fine luglio 1943 ripercorrendo lo svolgimento della crisi a partire da gennaio 1943 con la caduta delle forze alleate di Tripoli (23 gennaio 1943) rende evidente lo svolgimento di una crisi che la stampa italiana tende a nascondere.
È il senso della celebrazione del XXIV anniversario della Fondazione dei Fasci di combattimento [“Gazzetta del Popolo”, 24 marzo 1943] ma anche la lettura che Giuseppe Bottai [“Il Popolo di Roma”, 1 maggio 1943] propone della linea politica della Segreteria di Carlo Scorza, eletto segretario del Pnf il 19 aprile 1943. La retorica è soprattutto nel richiamo alla mobilitazione generale e all’impegno in guerra in nome della realizzazione del Risorgimento, questa volta avendo come obiettivo il controllo del Mediterraneo. Così esorta Mario Appelius nell’editoriale de “Il Popolo d’Italia” il 10 giugno 1943, nel giorno del terzo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia.
Non diversamente, torna a insistere Giovanni Gentile nel discorso che tiene il 24 giugno nella sala Giulio Cesare in Campidoglio a Roma, pubblicato in versione integrale il giorno dopo da molti quotidiani [qui lo riprendiamo da “Corriere della Sera”].
In quel testo un passaggio è essenziale.
“Gli italiani che domandano ogni giorno i conti – dice Giovanni Gentile avviandosi a trarre le conclusioni del suo discorso – che vogliono vedere freddamente come vanno le cose, che hanno qualcosa da dire su tutto quello che si fa, che si mettono insomma al di sopra degli avvenimenti, perché esercitare l’intelligenza è sempre un mettersi al di sopra delle cose e tirarsi fuori dall’azione, per fare la parte di spettatore che giudica senza compromettersi: questi falsi italiani devono aprire bene gli occhi e por mente che non è punto vero che essi non si compromettono e non agiscono. Essi compiono una loro azione, un’azione vile di devastazione delle energie morali del popolo che soffre e che combatte; essi assumono una tremenda responsabilità: la responsabilità del tradimento”.
Lo stesso giorno a Palazzo Venezia Mussolini tiene un discorso alla Direzione del Pnf in cui esorta il partito alla mobilitazione e all’unità, con un elogio del popolo come sottolinea nel suo commento Orio Vergani sulle pagine del “Corriere della Sera”. Mussolini in quel discorso annuncia un’azione di epurazione interna. È significativo che quel testo non venga diffuso e resti un inedito per altre due settimane. Troverà spazio nei giornali il 6 luglio 1943.
Quel testo è l’annuncio di una linea militante di sfida al Paese Italia come se il fascismo si presentasse al Paese come alternativa o avvisasse il Paese come «straniero». Per certi aspetti preannuncia la linea politica che sarà quella che connoterà il Partito fascista repubblicano tre mesi dopo nell’Italia ormai divisa in due, in una situazione che si avvia ad essere contemporaneamente definita da due occupazioni e da tre governi.
Quella linea, peraltro, è già contenuta nella nuova segreteria di Carlo Scorza (diventa segretario del Pnf il 19 aprile 1943) ed è sintetizzata nei 12 punti che Scorza elenca nell’editoriale che apre il numero di maggio 1943 del mensile “Gerarchia” immediatamente successivo alla sua nomina.
Terza parte. Dopo il 25 luglio
Le pagine dei giornali italiani del 26 e del 27 luglio possono sorprendere. L’allineamento alla nuova situazione è fulmineo. La condizione è quella di una sensazione di «liberazione» più che di una meditata e convinta libertà.
Immediato e significativo si potrebbe dire il passaggio che si consuma fin dal primo editoriale (significativamente firmato “Il Corriere della Sera”) che il 27 luglio apre il giornale (l’edizione del 26 luglio è senza editoriale) e in cui si legge:
“Non adempiremo al nostro ufficio che è di dire la verità se non ci mettessimo in guardia, anche qui, contro facili illusioni: la via della concordia può diventare in seguito complicata e spinosa. Ma comunque essa è stata aperta da tre atti fondamentali: le dimissioni di Mussolini da capo del Governo, l’assunzione del governo militare da parte del generale Badoglio e la promessa del Re, che annuncia ripristinate agli italiani le libere istituzioni «che ne hanno sempre confortato l’ascesa». Mettiamoci in questa via con fiducia. Offriamo la nostra obbedienza e il nostro lavoro, con la ferma certezza che essi saranno rimeritati. Vicino ai nostri soldati, vicino ai nostri Caduti ritroveremo la coscienza di quello che fummo e la fiducia in quello che saremo.
In questa consegna di lavoro e di lotta prende il suo posto anche il nostro giornale, l’antico, glorioso giornale di Eugenio Torelli Viollier e di Luigi Albertini. Viva, ora e sempre, l’Italia”.
In un attimo si costruisce il codice culturale: il ventennio è già ora parentesi. I direttori del periodo fascista – ovvero – Ugo Ojetti (1926-1927) prima e Aldo Borrelli (1927-1943) poi – non sono nominati. Appunto come a dire: noi siamo tornati quelli di prima. Il tempo trascorso è stato «vacanza».
Non significa che quel tempo, anche assunto come parentesi, sia percepito come definitivamente archiviato, per esempio come sottolinea Corrado Alvaro, neo direttore del “Il popolo di Roma” nel primo editoriale a sua firma che apre l’edizione del quotidiano del 28 luglio 1943.
E tuttavia, è interessante l’editoriale che già il giorno seguente apre il giornale. In quell’editoriale, dal titolo Legalità, infatti, l’auspicio a tornare allo status quo ante prevede la rimozione di alcune modifiche legislative, in termini di sistema di relazioni di impresa, di forme della rappresentanza politica. Significativamente in quelle disposizioni da azzerare non sta la legislazione razziale o le leggi discriminatorie nei confronti delle popolazioni delle ex-colonie che si trovano sul territorio nazionale.
Non è una dimenticanza. Lo stesso vuoto si ripresenta alcuni giorni dopo, il 7 agosto nell’editoriale che apre “La Gazzetta del Popolo” che significativamente si intitola La legge tornerà eguale per tutti. Rifarsi alle tradizioni italiane. L’1 agosto, del resto, su “Il Lavoro italiano” l’appello al ritorno al Risorgimento come atto rifondativo dell’Italia di sempre, aveva già fatto il suo ingresso nel lemmario pubblico.
Una linea culturale e politica che è ribadita nell’editoriale con cui Filippo Burzio, il 12 agosto 1943 apre la sua funzione di direttore de “La Stampa” (il titolo dell’editoriale, significativamente, è: Ripresa di una tradizione). A questo segue la necessità di non correre, di ripensare, più che una rifondazione, una ricomposizione delle fratture del Paese assumendo un tempo lungo come la prospettiva operativamente più efficace. È questa la linea culturale, ma si potrebbe dire anche di disposizione mentale che auspica Benedetto Croce nella sua lettera a Alberto Bergamini, tornato ad essere direttore de “Il Giornale d’Italia” dopo il 25 luglio, dopo esserne stato rimosso nel 1925. Un testo, quello di Croce, dal titolo La libertà innanzi tutto e soprattutto.
Di quell’auspicio in cui il tema è la necessità di rifondare la compattezza della nazione, fa anche parte il fatto che, sempre su “Il Giornale d’Italia”, il 17 agosto 1943 venga pubblicata, nello stesso spazio in cui è pubblicata la lettera di Croce a Bergamini, una lettera di uno squadrista che propone una lettura dello squadrismo in cui grande attenzione andrà al distinguere tra uno squadrismo ideale, caratterizzato da un ideale di salvaguardia della nazione, uno squadrismo che aveva solo interessi di potere, e uno squadrismo, infine, caratterizzato solo dal culto della violenza in sé.
Il tema di quei giorni è quello di ritrovare un paradigma o di rifondare una comunità.
Quarta parte. Le componenti di una “coscienza della transizione”
È a partire da questa preoccupazione che possiamo leggere il moltiplicarsi di interventi che pongono il problema della ricostruzione con uno sguardo che, se anche non nomina ancora la necessità che l’Italia esca dal conflitto (ovvero abbandoni la coalizione di cui è parte), pongono esplicitamente il problema del quadro di riferimento a cui guardare.
In breve, per Filippo Burzio su “La Stampa” il tema è come formare una classe dirigente, laddove con questo termine si intende contemporaneamente una competenza tecnica e una affidabilità – o forse, anche meglio, una garanzia politica. Perché come precisa Burzio: “Le qualità morali ed intellettuali di elezione, più che non gli uffici coperti, designano e selezionano lo Stato Maggiore di un Paese”. Discorso, contemporaneamente, sottotraccia e che si serve delle figure intellettuali pubbliche come funzione di apripista.
Ne è una dimostrazione l’edizione de “Il Popolo di Roma” del 26 agosto 1943. Da una parte l’editoriale di Corrado Alvaro dal titolo Ora difficile, censurato in più punti e significativamente interrotto nella riflessione che dovrebbe aprire al tema della nuova classe dirigente che non si indentifichi con il governo in carica; dall’altra una lunga riflessione di Alberto Moravia dal titolo Folla e demagoghi in cui il romanziere, creatore della categoria di “indifferente”, affronta il problema del liberarsi dal fascino del potere dei demagoghi e ne individua il percorso nella messa da una parte della folla come categoria mentale che allo stesso tempo è il risultato del rapporto domanda/offerta di demagogia.
Per uscire dalla forza di attrazione della demagogia, sembra dire implicitamente Moravia, occorre che i sudditi non chiedano potere, ma capiscano che la dittatura è stata anche la conseguenza del proprio atteggiamento. Per cui, a fronte della domanda di potere come indignazione, meglio riconoscere la competenza dei tecnici.
Una condizione emotiva ed emozionale che nei fatti chiede che la guerra finisca per poter inaugurare un percorso di lenta ricostruzione, possibilmente senza conflitti o concentrata sulla rimessa in ordine della società e che per certi aspetti si sente rappresentata dal radiomessaggio che Pio XII trasmette l’1 settembre 1943 nell’anniversario dell’inizio del conflitto.
Una condizione dove appunto ognuno deve partecipare per ciò che sa fare, ma non autocandidatosi a «salvatore della patria». È questo l’auspicio della propria funzione di economista e di competente che si ritaglia addosso Luigi Einaudi, ossia quello di far abbassare l’entusiasmo, senza far mancare la propria partecipazione allo sforzo collettivo. Ma appunto avendo una visione paziente, di “tempo lungo” e dunque scevra di entusiasmi.
È l’8 settembre il giorno in cui Luigi Einaudi pubblica la sua esortazione come editoriale de “Il Corriere della Sera”.
La sera il quadro è già cambiato. Tuttavia, alcuni degli interrogativi dei 45 giorni sono già sul tavolo di chi deve confrontarsi e progettare futuro. Un futuro che, in parte, è già condizionato dalle domande e dal «quaderno di lavoro» che sono stati moneta corrente in quelle settimane dell’estate 1943.