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Azione collettiva e social media: idee per un archivio vivo


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È da almeno una decina d’anni che alcuni politologi e sociologi parlano di «connective action» per descrivere l’azione collettiva dei movimenti di protesta che sfruttano il potenziale dei social media al di là della semplice comunicazione. Dalle primavere arabe a Occupy Wall Street, da Black Lives Matter al Movimento degli ombrelli di Hong Kong, è sempre più evidente che i canali social siano diventati luoghi di costruzione d’identità antagonistiche, di diffusione di contenuti alternativi, di socializzazione militante, di scontro dialettico, di elaborazione strategica e di attivismo vero e proprio – un attivismo che non sempre rinvia anche ad un’azione off-line.

Gli storici che si avventureranno su questi territori di ricerca dovranno naturalmente reperire e interrogare queste fonti, sulla scia di quanto gli altri studiosi dei movimenti stanno già facendo in presa diretta.

Ma come potrebbe essere l’archivio della connective action per gli storici del futuro? Lo sforzo di immaginazione credo debba muovere da una serie di problemi epistemologici e metodologici che stanno già emergendo nell’indagine sulla protesta contemporanea.

social media

Il problema dell’«opulenza informativa»

Il punto di partenza è ancora il problema dell’«opulenza informativa», dal quale Tomás Maldonado saggiamente metteva in guardia. Di fronte al profluvio di piattaforme digitali, flussi informativi e dati disponibili, si impone un lavoro di selezione che spariglia la logica valida al tempo della «scarsità informativa». Se le linee guida di questa selezione sono tutte da inventare e saranno soggette a continua evoluzione, esse dovrebbero fin da ora tener conto di una serie di criticità.

Per prima cosa, è opportuno ricordare che la materia prima da conservare e catalogare è già frutto di una sorta di archiviazione preliminare da parte degli algoritmi dei social i quali, come noto, generano inevitabilmente distorsioni. Gli ormai famigerati algorithmic biases enfatizzano e silenziano, promuovono e oscurano. Si tratta dunque di archiviare archivi, i quali sono essenzialmente concepiti e disegnati a fini di profitto. Inoltre, considerata la natura di questi media, alcuni movimenti hanno deciso di disertarli e di rendersi estranei ad essi, in base ad una precisa scelta politica. È dunque necessario essere consapevoli che una serie di filtri, più o meno invisibili, alterano a priori la massa delle informazioni disponibili.

Un secondo aspetto cruciale concerne sia la scelta delle piattaforme da tenere in considerazione sia la decodificazione delle informazioni che vi circolano, per accertarne la rilevanza e per catalogarle senza snaturarne il senso.

In un caso, ad esempio, certe pagine Facebook potrebbero essere state determinanti per chiamare a raccolta gli attori della protesta, laddove in altri casi un tweet potrebbe aver acceso la mobilitazione e un canale Telegram potrebbe aver reso possibile il coordinamento. All’archivista che opera in questo labirinto virtuale occorrerà – molto più che in passato – la collaborazione diretta degli attivisti, i quali potranno suggerire materiali significativi e fornire orientamento. Per mappare questo territorio sfuggente, probabilmente saranno utili anche la consulenza di studiosi di network e le armi dell’intelligenza artificiale.

A questi nuclei di problemi ne è direttamente collegato un altro, che deriva dall’attendibilità del materiale da versare in questo ipotetico archivio della connective action. Data la costante alterazione e manipolazione dei contenuti digitali, lo storico vorrà presumibilmente conoscerne la genealogia. Vorrà, per esempio, ricostruire la storia di un video e accertarsi che una certa versione di un documento sia la sorgente. In tal senso, l’archivio del futuro potrebbe essere immaginato come una blockchain che traccia la genealogia dei contenuti digitali, offrendo garanzie e trasparenza allo studioso che li vuole esaminare.

L’invecchiamento tecnologico

L’archivio dovrà inoltre sobbarcarsi il problema tecnico dell’invecchiamento tecnologico. Oggi un post su Facebook o su TikTok è facilmente leggibile; domani potrà essere obsoleto come il contenuto di un VHS. Non è questa la sede per suggerire soluzioni, ma è certo che gli storici conteranno sugli archivi anche per questo supporto. Al tempo stesso, gli archivisti saranno sempre più sfidati sul terreno del tempismo per la raccolta dei materiali.

L’uso delle stories, ovviamente comuni anche durante gli episodi di protesta, è emblematico di un tipo di contenuti strutturalmente effimeri e che, tuttavia, lo storico vorrà poter visionare.

Esistono – ed esisteranno – innumerevoli forme espressive e comunicative digitali evanescenti o a rischio di sparizione. Del resto, non sussiste nessun impegno a preservare i contenuti da parte dei siti web o delle piattaforme social, i quali tra l’altro modificano costantemente le norme di accesso ai dati. Attivisti ed archivisti debbono quindi unire le proprie forze e, idealmente, catturare e collezionare in diretta materiali potenzialmente rilevanti, per poi mantenerli accessibili. Esperimenti in tal senso sono già stati fatti – e con successo – nel caso di Occupy Wall Street e della Women’s March on Washington. La donazione di materiali attraverso il crowdsourcing e l’open access su internet hanno funzionato sia a livello pratico sia a livello simbolico, coinvolgendo i protagonisti dei movimenti in iniziative partecipative e decentrate, concettualmente distanti dall’archiviazione e dalla musealizzazione imposte da soggetti estranei.

Collaborazione orizzontale

È interessante notare come questa collaborazione orizzontale abbia anche riguardato l’acquisizione di materiali non digitali, come striscioni, volantini e giornali. E qui veniamo all’ultima criticità da affrontare. La connective action è probabilmente destinata a crescere e a svilupparsi, in forme anche imprevedibili. Verrà probabilmente il giorno in cui nasceranno fenomeni di dissenso nel, e a partire dal, metaverso, la cui sostanza sarà del tutto intangibile.

Eppure si può affermare con tranquillità che soggetti, relazioni ed ambienti fisici dell’attivismo sono ancora ineludibili, e si presume che lo saranno ancora a lungo. Pertanto i luoghi materiali della memoria non possono essere trascurati. Lo storico della connective action immagina quindi, in ultima analisi, un archivio che è vivo non tanto perché dedicato interamente al digitale, ma perché sappia far dialogare documenti tradizionali e contenuti digitali. Un archivio che aiuti a restituire la cifra di un tempo nel quale l’ibridazione tra reale e virtuale riguarda ogni aspetto dell’esistenza, a cominciare dall’atto umano e primordiale di ribellarsi.

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