Per lo speciale La classe operaia senza paradiso
Riempire gli spazi
Il rapporto tra mondo del lavoro e sinistra, o più genericamente tra mondo del lavoro e partiti, è spesso citato come una delle cause dei grandi cambiamenti e, soprattutto, del declino del radicamento dei partiti a integrazione di massa e allo sviluppo dei cosiddetti partiti pigliatutto. Insomma, semplificando, si è più volte ritenuto che essendosi polverizzata la classe operaia i partiti della sinistra socialdemocratica siano dovuti andare a cercarsi i consensi in quello spazio dai contorni vaghi che è il “centro”.
Per recuperare il terreno perduto ed essere più accattivanti, a partire dagli anni Settanta si avvia una discussione che porterà a una trasformazione radicale del rapporto tra rappresentanti e rappresentati.
La scelta fu di deideologizzare la sinistra con l’obiettivo di allargare il mercato dei possibili “acquirenti”. Simbolo di questa avvenuta trasformazione è il Labour Party di Tony Blair. Ma un po’ tutte le sinistre subiscono trasformazioni simili: dall’SPd di Gerhard Schröder al Partito democratico della sinistra che nasce dalle ceneri del partito comunista italiano.
Ridefinire il demos
Una premessa, questa, che serve a introdurre la questione essenziale: dopo il lungo ciclo delle cosiddette terze vie, come deve (ri)pensare la sinistra il suo rapporto con una società in profonda trasformazione? Come ridefinire il proprio demos?
La risposta a questa domanda è chiaramente fondamentale per la strategia di azione di ogni partito.
Le destre radiali e/o populiste sono riuscite negli ultimi due decenni a stabilire quelle che dovevano essere le colonne portanti del loro rapporto con il “popolo” e ora rivoluzionano gli equilibri partitici nazionali e, in prospettiva, europei. In questo senso bisognerebbe fare notare come i socialisti italiani, prima dell’avvento del fascismo, e i comunisti dopo il regime fascista, fossero sempre riusciti a costruire il proprio demos radicandosi contemporaneamente in diversi settori della società e dove la grande fabbrica era solo uno degli elementi.
Ma il cleavage che oppone il partito fluido, o leggero, dal partito ideologizzato, non è l’unico per determinare la natura di un partito (di sinistra). Ce ne sono almeno altri due di cui occorre tenere in considerazione. C’è la sinistra rivoluzionaria e la sinistra riformista.
Il dilemma rivoluzione/riforme
Su questo punto i socialisti tra Ottocento e Novecento sono riusciti a essere l’una e l’altra cosa, questo pur con differenti equilibri, almeno fino al 1922 quando l’ala turatiana venne espulsa, ma a quell’epoca va detto dell’universo socialista, fatto di cooperative, comuni, sindacati e sezioni restava ben poco.
Paradossalmente, anche il partito comunista dopo la Seconda guerra mondiale ha mostrato grandi capacità di sapere convivere, senza mai davvero risolvere, il dilemma rivoluzione/riforme: demandando a un futuro non bene identificato la questione della rivoluzione per concentrarsi nel presente sul miglioramento dei livelli di vita delle persone.
Infine, il terzo cleavage: ministerialismo o opposizione. Essere o non essere una forza di governo non significa essere o non essere una forza riformista. Anche qui ci troviamo di fronte a due piani differenti.
Turati, Berlinguer e Togliatti hanno saputo giocare sul banco delle riforme dando un grande impulso alla democratizzazione della società senza per questo essere quasi mai stati parte di governo. Essere sinistra parlamentare o sinistra di governo non è la stessa cosa insomma. Per parafrasare Otto Kirchheimer, entrare a far parte dei partiti ministeriali implica un grado di accettazione di regole che a volte precludono a una efficace e profonda azione riformista.
Strategia per il successo
Anche qui i socialisti prima del fascismo hanno mostrato come pur non coinvolgendosi troppo nei partiti di governo, limitandosi a garantire quando necessario un appoggio esterno ma senza mai diventare un partito ministeriale, abbiano saputo ottenere successi invidiabili.
La stessa strategia è stata quella del Pci, una volta esclusi dall’arco costituzionale nel 1948, da Togliatti in poi la strategia è stata quella di negoziare più o meno discretamente all’interno delle commissioni parlamentari. Poi c’è stata la sinistra ministeriale, quella di Depretis, accusata e frettolosamente condannata per essere stata trasformista, di avere cioè ceduto troppo alla destra pur di rimanere al governo. Eppure, è proprio in quegli anni che si approva l’allargamento del suffragio e si gettano nuove e più solide basi per combattere l’analfabetismo.
Sempre la sinistra di governo, questa volta i socialisti nel dopoguerra, negoziando con la democrazia cristiana, portano all’approvazione dello statuto dei lavoratori.
Resta il tema: è il partito che costruisce il demos o è il demos a definire e a produrre il partito?
Demos fuori fuoco
La questione è meno banale di non quanto sembri. Elly Schlein è stata recentemente eletta segretaria del partito democratico con consultazioni aperte. Il demos era quindi l’intera popolazione dei simpatizzanti.
Non è certamente una questione secondaria perché attraverso elezioni dirette e aperte si porta a una inevitabile disintermediazione e quindi a una destrutturazione del ruolo dei militanti, delle sezioni o più in generale degli organismi dirigenti, in sostanza a un modello che si distanzia dai modelli di partiti del Novecento e che si basavano sull’idea di una comunità definita.
Poi a partire dagli anni Ottanta il demos è diventato un qualche cosa di volutamente molto meno preciso e le comunità/partito sono progressivamente sparite. Non è un caso che nel 2013, 2018 e 2022 i comportamenti di voto in Italia siano cambianti profondamente e in qualche modo istericamente di elezione in elezione.
La crisi di legittimazione che vive oggi la sinistra non può quindi non affrontare nel profondo e in una prospettiva di lungo periodo ognuno dei tre cleavage di cui si è parlato: strutturato/non strutturato, riforma/rivoluzione e governo/opposizione. L’ansia di essere forza di governo, infatti, si è sovrapposta a qualsiasi altra dimensione fino a portare a una totale crisi di identità, questo sia in Italia che più complessivamente in Europa. Un ciclo è certamente finito ed è improbabile che uno nuovo si possa riaprire a breve.
Foto di copertina di Andrea Piacquadio.