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Kosovo, il presente in trappola


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Fotogrammi sfocati mostrano un gruppo di uomini serbi armati e barricati all’interno di un monastero ortodosso nel Nord del Kosovo circondato dalla polizia kosovara. È la fine del mese di settembre del 2023, ma il tempo sembra intrappolato negli anni Novanta dove sono sepolti le ragioni e i torti che hanno portato alla situazione odierna.


La storia del Kosovo, diventato Repubblica indipendente nel 2008, è costellata da episodi di tensione sempre sull’orlo di un conflitto: omicidi politici, rivendicazioni e rappresaglie violente. Basti ricordare nel 2018 l’uccisione del politico serbo Oliver Ivanović promotore di politiche di convivenza pacifica, la questione delle targhe nell’estate del 2022 e infine nel mese di aprile del 2023 il boicottaggio di massa delle comunità serbe delle elezioni per il sindaco che ha determinato la vittoria dei candidati albanesi nei comuni a maggioranza serba con una ridicola affluenza alle urne del 2%, che ne invalida qualsiasi autorità.

Il Primo Ministro del Kosovo Hashim Thaci (a sinistra) e il Presidente Fatmir Sejdu (al centro) con il Presidente degli Stati Uniti George W. Bush nel 2008.

Il punto fondamentale della vicenda rimane il mancato riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte della Serbia che si declina in una serie di ostacoli burocratici volti a rendere la vita dei cittadini un labirinto infernale.

Nel caso delle targhe, le automobili immatricolate in Kosovo non possono circolare in Serbia, perché considerate illegali vista la provenienza da un Paese ritenuto illecito. Lo stesso principio viene applicato sui documenti, le carte d’identità, le elezioni indette dal governo kosovaro.

Kosovo: una strada sempre in salita

Il Kosovo non ha mai avuto vita facile, a partire dalla famosa Battaglia della Piana dei Merli del 1389 trasformata in mito fondativo dell’eroismo serbo a difesa della cristianità contro l’avanzare dell’Impero ottomano, si è sempre trovato a fare da cerniera tra imperi.

In tempi più recenti, nella Jugoslavia di Tito, in seguito al pericoloso risveglio nazionalista degli anni ’70 e le richieste di diritti da parte degli albanesi, quel che era stata una provincia della Serbia ottenne un’autonomia speciale con maggiori libertà e l’introduzione dell’albanese come lingua ufficiale assieme al serbo-croato. Nel 1990 uno dei primi atti della dissoluzione jugoslava fu proprio l’abrogazione dell’autonomia speciale e il conseguente ritorno sotto il controllo della Serbia.

È qui che iniziò la doppia vita del Kosovo. I kosovari albanesi crearono un governo alternativo con istituzioni parallele, compreso l’esercito UCK che, con una serie di atti terroristici, diede il via alla guerra per l’Indipendenza che portò nel 1999 al bombardamento della Nato su Belgrado e alla caduta di Milošević.

I limiti dell’indipendenza

L’indipendenza che il Kosovo ottenne nel 2008 mostrò da subito i suoi limiti. Prima di tutto, la comunità internazionale creò un precedente pericoloso per tutti quei Paesi che temono dichiarazioni unilaterali di indipendenza al proprio interno e che in effetti scelsero di non riconoscere il Kosovo. Il mancato riconoscimento di molti Paesi, tra cui la Serbia, che continua ad esercitare un potere politico enorme di destabilizzazione del Paese, rese questa indipendenza illusoria.

Lo slogan Kosovo je Serbia è il pilastro della retorica nazionalista serba e l’attuale presidente Vučić è irremovibile nella sua posizione. Tuttavia è chiaro che l’unico modo per evitare un altro conflitto consiste nel fare un passo indietro, prendendo in considerazione la proposta della Comunità Internazionale di creare un’Associazione delle cinque Municipalità a maggioranza serba.

                                                                 “Kosovo Je Serbia”. Graffiti a Kranj

Un tentativo di accordo su cui da anni sono arenati il premier serbo e quello kosovaro, senza riuscire a trovare una lingua comune, poiché nessuno dei due è disposto a concedere qualcosa all’altro, come se il riconoscimento dei diritti degli altri togliesse qualcosa a chi quei diritti li possiede già.

Da qualsiasi punto la si guardi, la situazione è disperata, nella dicotomia “o noi o loro” non c’è spazio per un dialogo, ma soltanto per un confronto violento di cui la popolazione, sia serba sia kosovara, possiede ancora un ricordo vivido e l’ovvia consapevolezza che non ha portato a nulla di positivo.

Del resto il Kosovo è solo un tassello della scena internazionale in cui l’ossessione identitaria e la paura dell’altro sono spinte al limite estremo, laddove per esistere è necessario che non esista l’altro e dunque l’unica speranza di salvezza è un’inversione di rotta, una politica di apertura che, visti i tempi, è quanto di più rivoluzionario possiamo auspicare.

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