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La diplomazia del pingpong


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Non solo storia – Calendario Civile \ #21febbraio2022


Nel corso del tempo, le conseguenze intangibili di questo incontro si dimostreranno molto più importanti di quelle tangibili”.

Queste parole furono annotate 50 anni fa da Henry Kissinger, consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Nixon e regista dell’incontro che diede inizio al processo di normalizzazione dei rapporti fra la Repubblica Popolare Cinese (RPC) e gli Stati Uniti d’America (USA). Il 21 febbraio 1972, il presidente Nixon si recò in Cina in visita ufficiale; di quella settimana rimane impressa nella storia la stretta di mano fra i due presidenti, Nixon e Mao, dopo due decenni di silenzio fra i due paesi, e la memoria di un evento che verrà ricordato come una “rivoluzione diplomatica”.

Il riposizionamento delle due potenze nello scacchiere geopolitico mondiale diede inizio a un rapporto definito “speciale” dai diretti interessati – forse un eufemismo per evitare l’aggettivo “precario” – che nei decenni a seguire sarebbe stato caratterizzato da un’oscillazione fra fasi cicliche di attrito e di riavvicinamento, a cui ancora oggi assistiamo.

Quadro storico

Per comprendere la natura del riavvicinamento sino-americano bisogna analizzare le dinamiche interne ai singoli paesi e successivamente ampliare il raggio di osservazione alle pressioni geopolitiche che fecero confluire gli interessi strategici di Cina e USA in un bacino comune.

La Cina in cui il presidente Nixon e una ristretta delegazione americana atterrano nell’inverno del 1972 è una nazione lacerata dalla Rivoluzione Culturale, in cui la leadership del Partito comunista cinese (PCC) è delegittimata dalla scissione interna fra i “radicali” del presidente Mao Zedong contro i “revisionisti antirivoluzionari” del primo ministro Zhou Enlai.

Sul piano internazionale, l’inasprimento del rapporto con il blocco sovietico – culminato in scontri lungo il confine con la regione cinese dello Xinjiang e lungo il fiume Ussuri nel 1969 – condanna la Repubblica Popolare a un autoisolamento dalla comunità globale ormai insostenibile. A questo quadro va aggiunta la disputa sull’autonomia territoriale di Taiwan, isola che gode del riconoscimento diplomatico internazionale e del sostegno economico americano, reclamata dal PCC come territorio cinese. All’inizio degli anni ’70, Mao intuisce la necessità di ridisegnare la geometria della Guerra Fredda, consapevolezza che lo riavvicina al suo primo ministro Zhou Enlai e alla sua politica – ora ridefinita “pragmatica” – che auspica un riavvicinamento agli Stati Uniti.

Dall’altra parte dell’oceano, l’amministrazione repubblicana Nixon verte verso una nuova politica di apertura, come testimoniano le parole del presidente riportate in un articolo della rivista Foreign Affairs, del 1967: “We do not want 8oo,ooo,ooo [people] living in angry isolation”. Oltre a guadagnare consenso per una potenziale rielezione del presidente, l’amministrazione Nixon mira a sottrarre definitivamente Pechino dall’alleanza con Mosca, instaurare un nuovo equilibrio in Asia orientale – per prevenire la potenziale militarizzazione del Giappone – e a svincolarsi dall’impasse della disastrosa guerra in Vietnam – inscrivibile in una più ampia politica di contenimento della sfera di influenza della Cina comunista.

“We’re doing the China thing to screw the Russians and help us in Vietnam and to keep the Japanese in line, get another ball in play. And maybe way down the road to have some relations with China”.

Con questo inno del presidente Nixon alla realpolitikche un po’ stride con i toni che ci si aspetta da una “rivoluzione diplomatica” – gli Stati Uniti sono pronti ad accantonare le divergenze ideologiche in favore dell’interesse nazionale.

Manovre diplomatiche

Per far fronte al delicato scenario politico internazionale fu necessario un altrettanto delicato ballo diplomatico tra RPC e USA, di cui si possono ricordare due eventi cruciali: il viaggio segreto di Kissinger in Cina e la “diplomazia del pingpong”.

Nell’estate del 1971, Henry Kissinger compie una spedizione in Asia per conto dell’amministrazione Nixon, al termine della quale si reca segretamente a Pechino dal 9 all’11 luglio, inscenando un mal di pancia che lo costringe a posticipare di due giorni il volo di ritorno. Nel suo libro Gli anni della Casa Bianca, pubblicato nel 1979 [fonte: 1.Il “medio impero”: primo incontro con Chu En-lai], Kissinger riflette sull’importanza delle singole personalità sugli avvenimenti storici, riconoscendo la caratura eccezionale della sua controparte cinese Zhou Enlai, primo e unico ministro della Repubblica Popolare Cinese, in carica dal 1949.

I colloqui fino a tarda notte fra i due funzionari sanciscono l’accordo sull’incontro ufficiale fra i presidenti, fissato per l’anno successivo, mettendo in moto un processo che avrebbe ridefinito i decenni successivi, chiosato dal commento di Kissinger: “naturalmente Zhou e io ci utilizzammo a vicenda; questo è uno degli scopi della diplomazia”,parole riportate racconto di Kissingere disponibile → fonte: 1.Il “medio impero”: primo incontro con Chu En-lai].

Nello stesso anno, la nazionale cinese di pingpong e quella americana si trovano a Nagoya, in Giappone, per il campionato del mondo. L’avvicinamento fra le due squadre avviene grazie a uno scambio di doni fra il giocatore statunitense Glenn Cowan e il campione del mondo cinese Zhuang Zedong, considerato un evento epocale e immediatamente immortalato dalla stampa. Su richiesta del presidente Mao in persona, la squadra cinese invita formalmente gli americani a recarsi in Cina.

Quattro giorni dopo, i giocatori statunitensi sono i primi americani a visitare ufficialmente la Cina dal 1949, nell’aprile del ’71, in giornate che passeranno alla storia come “diplomazia del pingpong”. 50 anni dopo, lo sport è ancora strumento diplomatico, come le Olimpiadi invernali in corso a Pechino in questi giorni ci ricordano. Il boicottaggio delle Olimpiadi cinesi da parte dell’amministrazione Biden – seguiti a ruota da Australia, Canada e Gran Bretagna – pare una rappresentazione plastica dei nuovi assetti di alleanze internazionali, dove la storica stretta di mano fra Nixon e Mao nel ’72 si è trasformata nell’abbraccio fra il presidente Xi e Putin dell’inverno del ’22.

Incontro Nixon-Mao

A far luce sulle giornate che il presidente Nixon trascorse in Cina – fra Pechino, Hangzhou e Shanghai – esattamente 50 anni fa, rimangono due documenti ufficiali o, per chi volesse ripercorrere l’incontro in maniera alternativa, anche un’opera lirica un po’ bizzarra intitolata Nixon in China. Nel primo documento – disponibile nell’archivio digitale del Wilson Center, il Memorandum of Conversation between Mao Zedong and President Richard Nixon, colpisce, oltre all’atteggiamento quasi reverenziale di Nixon rispetto a quello più assertivo di Mao, il tentativo non tanto di convergere su temi nevralgici (che anzi vengono minimizzati) quanto di creare una zona franca per facilitare lo sviluppo e il perseguimento dei rispettivi interessi nazionali. Nixon ribadisce che sono le necessità della storia ad averlo portato a sedersi di fronte a Mao, sottolineando l’importanza di cogliere quella opportunità per delineare una svolta epocale.

Questo tentativo pare consolidato nel Comunicato congiunto cinoamericano [fonte Archivio], redatto a conclusione della visita del presidente americano. In questo secondo documento, il compromesso a cui le due fazioni sono dovute scendere appare evidente, e il contenuto dà voce non a una convergenza di risoluzioni ma a due prospettive distinte, una contrappeso dell’altra.

La delegazione cinese sembra aver colto lo spunto del presidente Nixon, sfruttando il Comunicato per ribadire l’importanza dell’indipendenza dei singoli paesi, della sovranità e integrità territoriale e della noninterferenza negli affari interni degli altri stati (principi che ancora oggi sono il mantra della comunicazione politica del PCC). Emerge anche il tentativo di arginare un’America definita allora dai cinesi “imperialista”, rivendicando la necessità di ricostruire un ordine internazionale che includa modelli alternativi e non prevarichi i paesi in via di sviluppo.

Effetti in prospettiva

Tornando agli effetti tangibili della visita ufficiale del presidente Nixon in Cina, su cui rifletteva Kissinger, le conseguenze immediate dell’incontro fra le due nazioni furono quantomeno evanescenti. La disputa sull’autonomia territoriale di Taiwan è rimasta irrisolta e ancora oggi alimenta scontri in strada a Taipei e attriti diplomatici tra RPC e USA; il tentativo di stabilizzare la regione dell’Asia orientale si può considerare fallito, se si pensa che i confini cinesi sono ancora oggi puntellati da basi militari americane; la guerra in Vietnam si protrasse dopo la visita de ’72 e non arrivò certo a una conclusione per mano di una mediazione del PCC; e, infine, l’ufficializzazione dei rapporti diplomatici fra Pechino e Washington non si sedimentò fino al 1979.

Tuttavia, l’incontro consegnò nelle mani del PCC qualcosa che raramente la storia concede: una seconda chance. Per la Cina dell’inizio anni ’70, politicamente fragile e internazionalmente isolata, l’apertura al processo di normalizzazione dei rapporti diplomatici con gli Stati Uniti rappresenta la possibilità di smarcarsi dalle pressioni statunitensi e, al contempo, di muovere i primi passi nella comunità internazionale.

In un’intuizione – forse passeggera – Kissinger si domanda se davvero introdurre la Cina nella comunità globale possa essere un passaggio vantaggioso per gli Stati Uniti. “A China that was heavily engaged throughout the world could be very difficult and a dislocating factor” (Vol. EI3, Documents on China, 1969-1972– https://2001-2009.state.gov/r/pa/ho/frus/nixon/e13/index.htm). Una volta inserita nella comunità globale, la Cina ha iniziato a delineare un disegno diventato man mano più nitido: unirsi a un ordine internazionale precostituito – sigillato nel dopoguerra dalle potenze occidentali – per rimodellarlo dall’interno, in funzione del proprio interesse nazionale.

Con questo obiettivo, nei decenni successivi alla visita di Nixon, il PCC ha saldamente inserito la Cina all’interno di tutti i tavoli di trattativa internazionale, dal Consiglio di sicurezza dell’ONU alla World Bank e la World Trade Organization . Il miracolo economico cinese degli ultimi 40 anni e la tenuta del Partito Comunista – dimostrando una longevità che né MaoNixon avrebbero potuto immaginare – ha scardinato il paradigma occidentale neoliberale, lasciando disattese le aspettative degli osservatori oltreoceano, i quali si aspettavano di assistere a un processo di graduale democratizzazione della potenza cinese.

Come osserva lo storico Jonathan Spence, le potenze occidentali, nei decenni successivi al ’72, si sono imbarcate nell’impresa, tanto ostinata quanto futile, di voler cambiare la Cina. La Repubblica Popolare è passata da ingombrante pedina geopolitica a prima potenza mondiale, in grado di rappresentare un’alternativa ai modelli di governance e di sviluppo delle democrazie occidentali.

Forse Mao sobbalzerebbe nel vedere che la presenza della Cina all’estero, oggi, non assume la forma del sostegno alla lotta di classe, ma si concretizza, invece, in investimenti finanziari e in un’orda di Istituti Confucio disseminati nelle città europee. Le sfere di influenza che Mao si riproponeva di evitare sono oggi una realtà più che mai concreta e il pendolo delle relazioni fra Stati Uniti e Cina continua a oscillare, ma per comprenderne a fondo l’andamento è necessario risalire al 1972.

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