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La «ricreazione» del 25 luglio


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«Penosa constatazione, penosissima segnalazione! La quasi unanime avversione, a breve distanza dai bugiardi osanna, ha cause ed origini svariate. Un solo punto in comune: la volubilità del popolo italiano».

Così recita una mesta relazione fiduciaria datata Roma, 24 luglio 1943. L’anonima spia del regime non sa che quella sera andrà in scena l’ultimo atto di una tragedia iniziata ventuno anni prima. Per il momento, l’informatore registra il clima che si respira nella Capitale, come in tante altre città d’Italia: al malessere causato dal perdurare del conflitto si è sostituita l’insoddisfazione e a questa l’ostilità, la rabbia verso uno stato di cose e il suo artefice Mussolini, e non solo lui: pochi giorni prima, un’altra relazione ha riportato i «gravissimi improperi» lanciati dalla popolazione contro lo stesso sovrano, in visita insieme alla moglie e al duce nel bombardato quartiere di San Lorenzo. Sono parole che, «per decenza», la spia non riferisce. Il clima, e non solo dal punto di vista meteorologico, è davvero rovente.

Lo sarà ancora di più nei giorni seguenti. È domenica 25 luglio 1943. La giornata è stata afosa in quasi tutta la penisola. È sera, e le persone iniziano ad abbandonare parchi e giardini dove si sono rifugiati in cerca di refrigerio. Mentre si guadagna la strada di casa, si discute degli ultimi avvenimenti. C’è stato il recente sbarco angloamericano in Sicilia. Il 12 e il 13 luglio gli Alleati hanno bombardato Torino; il 19 è stata la volta di Roma. Due massacri. Il 22 luglio con Patton hanno conquistato Palermo e il 24 anche Bologna ha subito un violento attacco aereo. Sembra che tutto stia precipitando in un baratro infernale. Nessuno sa cosa è accaduto la notte precedente a Palazzo Venezia. E nessuno sa che in quel momento Mussolini è già prigioniero del re e destinato a essere trasferito sull’isola di Ponza.

Annuncio delle dimissioni di Mussolini

Sono le 22 e 45 quando l’EIAR interrompe un concerto radiofonico dell’Orchestra diretta da Carlo Zeme, il leggendario partner del Quartetto Cetra. La «voce littoria» di Giambattista Arista ha appena ricevuto dal direttore del giornale-radio Pio Casali un comunicato straordinario portato di persona dal ministro della Real Casa, il duca Acquarone, uno degli artefici del complotto monarchico. Arista si mette al microfono e inizia:

Pietro Badoglio
Pietro Badoglio

«Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato di Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini…». Il nuovo premier è Pietro Badoglio, il Maresciallo d’Italia, il duca di Addis Abeba, l’ex capo di stato maggiore generale. L’uomo del re. E infatti, il comunicato si conclude con la sola Marcia Reale, non più abbinata a «Giovinezza». Seguiranno i proclami di Vittorio Emanuele, che assumerà il comando supremo delle Forze armate, e dello stesso Badoglio, con il suo famoso «La guerra continua».

La gente, dapprima stupefatta e incredula (Mussolini c’è sempre stato, pareva immortale), inizia a riversarsi nelle strade. A Roma in piazza del Tritone si grida «Cittadini, sveglia, hanno arrestato Mussolini, a morte Mussolini, abbasso il fascismo». Si accendono le luci, ci si incontra nelle strade. Inizia il rito delle «cimici», i distintivi del PNF che fino a poco tempo prima si ostentavano per ottenere il rispetto di tutti. Ora chi li indossa rischia: nella migliore delle ipotesi l’emblema con il fascio littorio gli viene strappato, e talvolta si giunge all’aggressione. Molti li gettano nei tombini, intasandoli, e si aggregano ai festeggiamenti. Gli italiani non si smentiscono mai.

L’entusiasmo della popolazione

L’entusiasmo pare dominare la stragrande maggioranza delle persone, anche se ogni tanto si incontrano «musi lunghi»: forse dispiaciuti, forse preoccupati per i destini d’Italia. A Napoli i giovani fascisti escono dalle sedi rionali e, clamorosamente, inneggiano alla libertà. A Milano si forma un assembramento in piazza Cavour, sede de «Il Popolo d’Italia» (che la mattina del 26 luglio preparerà il suo ultimo numero, inneggiante peraltro a Badoglio, ma che non verrà mai distribuito): vogliono devastare la redazione del quotidiano di Mussolini, ma un commissario e alcuni agenti di pubblica sicurezza saranno sufficienti per disperdere i facinorosi.

Il nuovo ministro degli Interni, Bruno Fornaciari (già prefetto di Milano negli anni Trenta) e il capo della polizia Carmine Senise interverranno subito per limitare gli entusiasmi giornalistici: a Roma si impedisce la distribuzione di un foglio volante de «Il Messaggero» che pare possa gettare benzina sul fuoco delle passioni popolari; a Milano Corrado De Vita predispone nella tipografia del «Corriere» un nuovo giornale con un titolo programmatico e pericoloso, almeno per gli occhi della nuova giunta militar-burocratica guidata dal Maresciallo d’Italia: «La libertà del popolo». Anche questo non vedrà la luce.

Tuttavia, per il momento si concede un po’ di «svago» alla gente. Ai balconi compaiono le bandiere sabaude, mentre la furia popolare si scatena contro i simboli del deposto regime che per anni hanno adornato gli edifici pubblici. Le sedi del Partito in tutta Italia sono assaltate e devastate. La Milizia si è dissolta come neve al sole. Verso sera compaiono le prime scritte sui muri: «Distribuzione straordinaria di frattaglie di porco: Mussolini a pezzi»; «Adesso con Badoglio ai fascisti rendiamo l’oglio» [sic]; «Pace pane carne e libertà: avanti Badoglio chel porco l’è andà» e via di questo passo.

Le prime opposizioni

Iniziano a organizzarsi le prime manifestazioni dell’opposizione, riemersa dalla lunga clandestinità: a Milano nel pomeriggio del 26 il comunista Giovanni Roveda tiene in piazza Duomo il primo comizio di un partito antifascista, in un clima di maltollerata semilegalità. L’atteggiamento delle autorità varia da città a città: in alcuni casi i prefetti e le autorità militari, come nella Torino del generale Adami Rossi (in seguito immortalato nella celebre Badoglieide partigiana), reprimono; in altri, come a Modena, autorizzano affissioni di volantini e manifestazioni antifasciste.

Ulteriori sfilate popolari si registrano a Firenze, dove le manifestazioni assumono un coté  monarchico-risorgimentale; in diverse città piemontesi si aggrediscono i pochi militi fascisti ancora in circolazione, che fuggono nelle caserme dell’esercito alla ricerca di camicie grigioverdi al posto dell’orbace; a Como il monumento a Garibaldi di piazza Vittoria viene inghirlandato di fiori; a Bologna si scende per le strade cantando l’inno di Mameli, la canzone del Piave e l’inno di Garibaldi, piuttosto insidioso: «va fuori d’Italia va fuori ch’è l’ora va fuori stranier». Chi è lo «stranier»? Patton o Kesselring? Nelle città del sud la caduta del regime si associa all’attesa spasmodica degli Alleati, che significa la fine della guerra e delle privazioni, o almeno così si spera. A Milano il «Covo» di via Paolo da Canobbio è invaso e devastato.

La Casa del Fascio di piazza San Sepolcro fa la stessa fine, prima di essere trasformata in una caserma dei bersaglieri. Ovunque si distruggono targhe, busti, fasci. «Sembra che la città abbia cambiato volto» ricorderà osservando i milanesi in festa. Ma è tutta l’Italia che pare irriconoscibile.

La fine dei fascisti

Dove sono finiti i fascisti? Chi non ha repentinamente cambiato casacca e letteralmente camicia, legandosi al collo fazzoletti tricolori e talvolta persino rossi (e non saranno pochi), si è dileguato. I gerarchi più in vista cercano rifugio nelle sedi diplomatiche tedesca, ungherese e giapponese; altri si nascondono negli alloggi di amici fidati o nelle chiese (meglio evitare le proprie abitazioni) e progettano complicati espatri in Svizzera o nell’accogliente Spagna di Franco.

I pesci piccoli invece rischiano. Difficile stabilire quanti fascisti siano morti in quei giorni. Non risultano tuttavia molte violenze. In complesso tra il 25 e il 31 luglio i morti saranno tra i sessanta e gli ottanta, alcuni veri o presunti «irriducibili» e molte vittime della «normalizzazione». Questa avrà inizio sin dalla sera del 26, con l’attuazione del piano «O.P.» (Ordine Pubblico) di Senise. Il nuovo capo di stato maggiore generale, Mario Roatta, lo perfezionerà con una sua circolare, la quale avrà questo incipit:

«Nella situazione attuale, col nemico che preme, qualunque perturbamento dell’or­dine pubblico anche minimo, et di qual­siasi tinta, costituisce tradimento et può condurre ove non represso ai conseguenze gravissime; qualunque pietà et qualunque riguardo nella repressione sarebbe pertan­to delitto». Quindi, i militari dovranno avere testualmente «il fucile pronto e non a bracciarm».

Si tratta delle misure più draconiane dal 1921.  Il 27 luglio l’organo del Partito d’azione, «Italia Libera» denuncerà questo stato di cose: «Il governo procede per suo conto, il paese avanza in direzione opposta. Quanto tempo può regnare questa visibile impermeabilità tra la volontà popolare e le velleità del governo dei burocrati?». La risposta arriverà molto tempo dopo.

Per il momento, la «ricreazione» sta per concludersi. Agosto sarà il mese del governo militare, dell’incertezza, delle trattative e anche dei massicci bombardamenti. Quella lunga, interminabile estate terminerà con l’armistizio, l’occupazione e l’inizio della guerra civile. L’autunno e le stagioni seguenti, anche se è quasi incredibile a dirsi, saranno anche peggiori, prima del ritorno definitivo della libertà.

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