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Mostar, trent’anni e altre guerre dopo


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Mostar, ottobre 1993

“Brucia, l’odore della guerra, brucia nell’aria combusta dai gas, dagli incendi e dalle esplosioni. Nel puzzo di fogne scoperchiate, di acque stagnanti. Brucia nel fetore di carogne di animali lasciate a marcire sulle strade. Non c’è tregua, a Mostar, da mesi. Non c’è tregua né tempo e modo di rimuovere le bestie morte. A pochi metri dallo Stari Most, il magnifico ponte sulla Neretva, l’aria è resa irrespirabile dalla carcassa di un cane. È quasi irriconoscibile, sbranato com’è, cibo per topi o per altri cani che divorano il proprio simile, resi pazzi dalla fame, come gli umani armati, resi pazzi dall’odio, divorano le vite di fratelli e sorelle quasi sempre inermi, innocenti. Mostar, nel cuore dell’Herzegovina, è forse, in questo crudele autunno balcanico, il punto più furiosamente aggredito sul fronte di una guerra feroce e interminabile”

L’entità dell’attacco

Ero lì, nell’ottobre del 1993, pochi giorni prima che abbattessero il ponte, l’arco agile ed elegante progettato da Hairudin nel 1556, in un attacco che mischiava genocidio e urbicidio. Ne scrissi un reportage, che poi confluì in un romanzo che mischiava invenzione narrativa e racconto dal vero (Sarajevo Maybe, Feltrinelli 1994), un tentativo di chiarire a me stesso cosa stavo vedendo e, al contempo, di testimoniare che stava capitando qualcosa di sconvolgente.

Qui è peggio che a Sarajevo, vien da pensare, aggirandosi per le vie devastate della parte musulmana sulla riva orientale del fiume. Nella capitale la vastità diluisce l’orrore. Qui, invece, immaginate una tempesta di granate cadere su una specie di Assisi islamica, piccola e preziosa, di pietre e selciati, svettante in un rigoglio di minareti, labirintica nelle vie ottomane e trionfante, splendida, nelle moschee e nelle linee arabiche fuse, e confuse, nell’architettura europea medievale, qui come in pochi altri luoghi testimonianza dell’incontro millenario di Oriente e Occidente. Mostar è vissuta in questa secolare tessitura di culture e di relazioni umane. Città cosmopolita, pluralista. E dunque più di altre violentata dalla folle e spietata politica di ‘pulizia etnica’ (…)”.

Ero un deputato e a Mostar (e a Sarajevo, e altrove, più volte) ero andato con un convoglio di aiuti umanitari, ma anche per incontrare autorità locali e poi riferire al Parlamento. L’Italia, l’Europa, non si scomodarono troppo, in quel frangente storico che segnava una frattura. Non lo capirono. Sottovalutarono, elusero. Cinicamente, spesso, a volte vigliaccamente. Meglio si comportarono associazioni e movimenti che costruirono dal basso, inventando ex novo la solidarietà internazionale, forme di cooperazione, di primo soccorso alle popolazioni assediate, bombardate, affamate, ferite, e di documentazione sul campo di quanto accadeva.

Mostar: una stagione nuova

Ne scaturì una stagione nuova, feconda e concreta dello stesso impegno pacifista, che non rinunciò a porsi, specie con figure come Alexander Langer, il tema dell’interposizione umanitaria ma anche dell’intervento di polizia internazionale per difendere gli inermi aggrediti. Questione irrisolta, in realtà, oggi più che mai.

Anche molti Enti locali si mossero attivamente. Il Comune di Venezia, la mia città, si gemellò con Sarajevo già durante l’assedio, inviando varie missioni e sviluppando progetti insieme alle autorità della capitale bosniaca che durarono a lungo, ben dopo la fine della guerra. La Provincia di Venezia contribuì finanziariamente alla ricostruzione proprio del ponte di Mostar.

Fu un’esperienza preziosa, quella della solidarietà e del pacifismo dal basso, una rete vitale, di azioni e progetti concreti, che a volte riuscì a influenzare il dibattito generale in una chiave meno subalterna alle logiche geopolitiche dominate da opzioni militari e ispirate dagli interessi dei grandi attori economici e meno o per niente fagocitata dai cattivi sentimenti, dall’odio e dal rancore, dalle pulsioni irrazionali e distruttive.

Perfino oggi, in questa angosciante situazione che vede riesplodere i conflitti nelle forme più distruttive e che tende a escludere ogni protagonismo dal basso, perfino in questi giorni in cui “la guerra non viene più dichiarata ma proseguita” (Ingeborg Bachmann), non cessa quel lavoro difficile, oggi più difficile ancora, nato in quegli anni.

Nato anche dallo sgomento di fronte a gioielli aggrediti come lo Stari Most e, bene prezioso, inestimabile, come l’umanità che lo attraversava ogni giorno e che si era faticosamente costruita, nel tempo, pluralista e conviviale. Un esempio, trent’anni e altre guerre dopo, più attuale che mai.

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