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Spagna: mercato del lavoro, una riforma che vale una legislatura


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Lo scorso 3 febbraio è stata finalmente approvata la riforma complessiva del mercato del lavoro voluta dal governo di coalizione di sinistra spagnolo e soprattutto dalla ministra del lavoro Yolanda Díaz.

In realtà l’approvazione in aula è stata piuttosto accidentata. Gli alleati parlamentari del governo – gli indipendentisti baschi e catalani –, alla fine hanno votato contro. I primi perché i sindacati baschi non erano d’accordo con la riforma, i secondi semplicemente per logorare il governo, e particolarmente l’ala sinistra – di cui fa parte la ministra Díaz –, per una questione di concorrenza elettorale. Due deputati della minoranza navarra (dell’Unión del Pueblo Navarro –UPN –, piccola forza alleata con i conservatori del Partito Popolare), che il giorno prima avevano dichiarato che avrebbero votato a favore, hanno cambiato il senso del voto la mattina stessa senza dichiararlo, mandando di fatto il governo al macello in aula.

yolanda diaz
Yolanda Díaz
Alla fine è stata approvata per un solo voto a favore, per l’errore materiale di Alberto Casero – deputato del Partito Popolare di Cáceres – che semplicemente ha sbagliato a premere un bottone. Qualcuno ha detto che si è trattato di giustizia poetica.

Cambiamento profondo

Però è un fatto che per un motivo o per l’altro questa riforma – che ha messo fine al paradigma di un mecato del lavoro con tassi di temporalità indecenti, che era stato ulteriormente aggravato dalla legislazione approvata nel 2012 dal Partito Popolare in piena espansione delle politiche austeritarie –, è stata osteggiata da più parti con vera e propria durezza, perchè rappresenta un cambiamento reale i cui effetti, a tre mesi dall’approvazione, sono quantificabili: secondo i dati relativi ad aprile, il 50% dei nuovi contratti sono a tempo indeterminato, mentre la riforma ha avuto un effetto balsamico sull’insieme dell’occupazione, che ha visto ridursi nello stesso mese i disoccupati in quasi 90 mila unità.

In realtà, il cambiamento  è stato profondo sia per l’ambizione della riforma – nei dettagli della quale si entrerà più avanti –, ma anche e soprattutto per la dinamica con la quale la modificazione legislativa è andata maturando. L’impegno per la derogazione della riforma del 2012 è stato uno dei pilastri dell’accordo di governo che alla fine del 2019 ha permesso la nascita del governo di coalizione fra i socialisti del PSOE e la sinistra alternativa di Unidas Podemos.

Di fatto, nel negoziato per la formazione dell’esecutivo, Unidas Podemos ha voluto il controllo del dicastero del Lavoro fondamentalmente per questo motivo. Yolanda Díaz –  avvocata del lavoro – è sbarcata al ministero con un gruppo di collaboratori e collaboratrici silenziosi ed efficienti, la maggior parte dei quali formati alla scuola del grande sindacato confederale Comisiones Obreras, come nel caso del viceministro Joaquín Pérez Rey.

La cultura politica dell’azione del ministero, da questo punto di vista, ha introiettato il riflesso della cultura sindacale: stabilire le priorità, riconoscere gli interlocutori, cercare l’accordo, non sottovalutare mai la possibilità di una vittoria in termini di condizioni materiali dei lavoratori e delle lavoratrici, per piccola che possa sembrare.

Le vicende legate alla pandemia, di fatto si sono rivelate terreno fertile perchè questa cultura potesse operare ed ottenere risultati. Il prestigio del dialogo sociale come metodo ha fatto schizzare le quotazioni del “metodo sindacale” e reso più difficile a tutti gli attori coinvolti di sfilarsi. In tutto il tempo che separa la formazione del governo dall’approvazione della legge, sono stati firmati più di dieci accordi tripartiti (governo, sindacati e confindustria) su temi di grande importanza: dal salario minimo alla cassa integrazione o a una regolazione veramente all’avanguardia della cosiddetta economia di piattaforma digitale, che include anche un meccanismo di controllo sugli algoritmi che la fanno funzionare.

Con questo bagaglio, di dinamismo e di conciliazione di interessi ostinata, silenziosa ed efficace, è stata affrontata la riforma del mercato del lavoro, la prima in assoluto che ha potuto contare sul consenso di sindacati, imprese e governo. Sembra un dettaglio, ma non lo è affatto: non bisogna mai dimenticare la storia della Spagna e la sua entrata in ritardo nel novero delle democrazie dell’Europa Occidentale. Mentre in Francia o in Italia o in Germania, negli anni Sessanta o Settanta il dialogo sociale – con più o meno conflitto, ma in un contesto democratico che garantiva le libertà sindacali – produceva le politiche di redistribuzione del reddito più importanti del XX secolo e sanciva un avanzamento generalizzato dei diritti dei laboratori, il Franchismo incarcerava e condannava sindacalisti come Marcelino Camacho – fondatore, appunto, di Comisiones Obreras – e i salari venivano fissati per decreto da uno dei regimi più classisti della storia europea.

Di fatto, in qualche modo, l’adesione delle organizzazioni degli imprenditori all’accordo che dà vita alla riforma (che è avvenuta non senza profonde divisioni interne), ha generato un certo sconcerto tra le fila del Partito Popolare, che quasi per default si aspettava un abbandono delle organizzazioni degli imprenditori, trovandosi invece ad attaccare la riforma in parlamento senza poter sbandierare una rappresentazione di interessi materiali che ha reso gli attacchi piuttosto artificiali, in ogni caso unicamente ideologici.

Quattro punti centrali della riforma

Se si guarda ai contenuti della riforma, bisogna sottolineare quattro punti centrali.

Il primo fa riferimento alla gerarchia dei processi di contrattazione. Dopo dieci anni di prevalenza dei contratti d’impresa sui contratti collettivi, si cambia rotta: le organizzazioni recuperano protagonismo – limitando così l’asta al ribasso permessa dall’atomizzazione dei negoziati –, e si ripristina una certa equiparazione delle condizioni salariali nell’insieme del territorio.

Il secondo elemento importante della riforma è l’obbligo per le imprese multiservizio che forniscono lavoratori (il vero motore della degradazione delle condizioni del mercato del lavoro che in Spagna hanno fatto furore dagli anni Novanta) a rispettare comunque le condizioni del contratto collettivo del settore nel quale verranno effettivamente impiegati i lavoratori. In altre parole, si colpisce il subappalto come motore di creazione d’impiego mal retribuito.

Il terzo elemento, invece, e probabilmente il più sostanzioso, fa riferimento alle norme volte a colpire il male atavico del mercato del lavoro spagnolo, che non è altro che la temporalità. La nuova norma attacca il problema da diversi fronti. Elimina il contratto “per opera e servizio” (creato in epoca franchista), che è stato usato storicamente in modo palesemente scorretto: milioni di lavoratori hanno inanellato nel corso del tempo successivi contratti di questo tipo, senza che vi fosse l’obbligo di renderlo a tempo indeterminato. Questo è servito non solo per limitare i costi dei possibili TFR (che in Spagna sono già piuttosto contenuti), ma soprattutto per camuffare i licenziamenti stessi: un lavoratore in scadenza non c’è bisogno di licenziarlo, basta non rinnovargli il contratto.

Nella nuova legge, la norma è il contratto a tempo indeterminato, la contrattazione temporanea può durare solo sei mesi e dev’essere ampiamente giustificata e viene stabilito l’obbligo di assumere a tempo indeterminato qualsiasi lavoratore che abbia accumulato 18 mesi di contratto con la stessa ditta negli ultimi due anni (anche con mansioni diverse). Le sanzioni per uso distorto di questo tipo di contattazione si applicheranno da ora in poi per contratto e non per impresa. In passato, i costi delle possibili multe venivano praticamente messi a bilancio, perchè comunque era vantaggioso economicamente per le imprese. Vengono riformulati anche i contratti stagionali (che per un’economia con un settore turistico così scviluppato come la Spagna non è poco): da ora in poi questo tipo di contratto implicherà il mantenimento del salario, alle condizioni e soprattutto, l’anzianità, con i benefici economici che comporta.

Infine, la riforma introietta ed estende la cassa integrazione come meccanismo di salvaguardia delle condizioni dei lavoratori e di viabilità delle imprese: il meccanismo “Rete” renderà possibile per le imprese attivare la cassa integrazione per un massimo di un anno e con esenzioni  contributive che diminuiscono dal 60% al 20%, o in caso di ristrutturazione settoriale per sei mesi, estendibile a un anno e con esenzioni del 40%. Sembra un meccanismo decisivo nel momento in cui si dovranno affrontare trasformazioni decisive del sistema produttivo che non possono essere più aggiornate.

Per tutti questi motivi, la riforma del lavoro approvata a febbraio rappresenta probabilmente la norma più importante di tutta la legislatura che il prossimo anno arriverà a scadenza.

E nonostante l’iter parlamentare tribolato, porta al governo in dote non solo più del 60% di gradimento rispetto alla nuova norma, ma anche e soprattutto per la prima volta nella storia più di 20 milioni di contribuenti dell’INPS. Non è poco.

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