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#11 settembre o la vera fine del ‘900


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Il Novecento si era chiuso con il crollo del comunismo sovietico e da più parti si era parlato di “fine della Storia”. Quando alle 8.48 di martedì 11 settembre 2001 il secondo aereo si abbatte sulla seconda delle Twin Towers, improvvisamente la Storia riprende il suo corso, ma in un modo del tutto inedito. Da quel momento cominciamo a vivere in un tempo diverso, un tempo che ancora – questo agosto lo ha dimostrato – non ha trovato una sua soluzione.

 

Eravamo entrati nel nuovo millennio augurandoci un mondo capace di combattere o ridurre le ingiustizie, un mondo nel quale le condizioni di benessere divenissero sempre più estese e non più un miraggio per la gran parte dell’umanità.

Il millennio precedente si chiudeva con la nascita a Seattle, il 29 novembre 1999, del movimento no-global. A Seattle i manifestanti si mobilitavano contro quella globalizzazione neoliberale che stava  producendo iniquità economiche, retrocessione sociale, insostenibilità ambientali. Quel popolo si sarebbe dato appuntamento a Davos, a Napoli, a Göteborg e poi ancora a Genova, in concomitanza con il G8 del 2001.

Le giornate di Genova hanno rappresentato uno spartiacque esistenziale e politico nella vita di molti, ma poi – come ricorda Jacopo Tondelli nel volume G8 GE 2001. La generazione che perse la voce:

 

quel luglio volò via e fu subito settembre, al giorno 11, per la precisione. Se mai ci avessimo creduto, scoprimmo in mondovisione – per la prima volta, davvero, attraverso Internet – che la storia non era finita, che il mondo non era piatto, che il progresso non era un cammino inarrestabile e necessario. La più spaventosa e spettacolare dichiarazione di guerra della storia contemporanea, in fondo, ci ricordava la forza, l’urgenza di tutte le domande che ci avevano accompagnato verso Genova, la necessità imprescindibile di un mondo popolato da libertà e non guidato da satrapie, l’orizzonte necessario di una nuova distribuzione delle risorse perché la loro concentrazione ereditaria portava ingiustizia e violenza, il dovere politico di una soluzione irreversibile dei conflitti del Novecento, perché il nuovo millennio che si apriva non fosse insanguinato dai sacrifici dei figli e dei nipoti. Eppure, proprio quel giorno di settembre, mentre colpiva al cuore la capitale dell’Occidente globale in nome di ideologie e interessi e versetti che erano cromosomicamente nemici dell’idea stessa di progresso, spazzava via definitivamente quello spazio di critica e di riflessione che, faticosamente, dopo Piazza Alimonda, la scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto, qualcuno stava provando a tenere aperto. Una strana, assurda alleanza tra politica conservatrice occidentale e islamisti reazionari spegneva i semi di una critica libera all’ordine costituito, al modello di sviluppo post-coloniale che avrebbe mostrato, pochi anni e diverse guerre dopo, tutti i suoi limiti storici all’esplodere della grande crisi economica iniziata nel 2007.

L’11 settembre, dunque, improvvisamente modifica il ritmo e forse anche la prospettiva della Storia. La Storia in tempo reale manda a dire che non è vero che il peggio è passato. L’immagine del conflitto che sembrava archiviata col secolo precedente torna a essere realtà, e anzi ne diventa il principio e il fondamento.


Come osserva Alessandro Colombo, il ventesimo anniversario degli attacchi all’America dell’11 settembre 2001 avrebbe dovuto coincidere, nelle intenzioni del Presidente degli Stati Uniti, con il compimento di un ciclo storico: quello aperto dalla risposta militare contro Al-Qaida e i Talebani afghani e concluso, appunto, dal definitivo disimpegno militare americano dell’Afghanistan. Ma il clamoroso collasso dello Stato e dell’esercito afghano e il precipitoso ritiro dei contingenti occidentali dall’aeroporto di Kabul hanno reso questa coincidenza ancora più simbolica. La fine dell’impegno degli Stati Uniti e della Nato, infatti, non ha segnato soltanto la conclusione della guerra più lunga della storia americana. Il suo significato più profondo è stato quello di portare allo scoperto il fallimento di vent’anni di politica estera occidentale e di mostrare, come sostiene Mario Del Perola crisi dei processi di integrazione globale e di una democrazia esportata manu militari.

Per declinare il concetto di libertà «in termini di XXI secolo», in questo nostro tempo che scopre come imperativo l’obiettivo della sostenibilità, forse il fronte da aprire è quello della possibilità di un equilibrio del pianeta, della redistribuzione del benessere, dove al centro stanno – senza possibilità di mediazione – o gli interessi di tutti o l’opulenza dei pochi; dove il tema di una etica ambientale – osserva David Bidussa – non è più solo una questione ecologica di “aria pulita”, ma di diritti alla vita della prossima generazione. È una sfida politica che chiama in causa anche l’Unione europea, ce lo ricorda Flavio Brugnoli, ma che soprattutto riguarda il futuro globale.


Lo scriveva Albert Camus già nel 1946:

oggi sappiamo che non ci sono più isole e che i confini sono effimeri. (…) Così come nessun problema economico, per quanto secondario appaia, può oggi essere risolto al di fuori della solidarietà internazionale. Il pane dell’Europa è a Buenos Aires e i macchinari della Siberia vengono fabbricati a Detroit. Oggi la tragedia è collettiva. Dunque sappiamo tutti, senza ombra di dubbio, che il nuovo ordine di cui andiamo in cerca non può essere soltanto nazionale e nemmeno continentale, né tantomeno occidentale o orientale. Dev’essere universale, non è più possibile attendersi soluzioni parziali o concessioni.

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