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A cinquant’anni dal colpo di Stato in Cile. La storia, la memoria e il peso del passato


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A cinquant’anni dal colpo di Stato in Cile


Nel suo libro – oramai classico – Storie orali, Alessandro Portelli ci mette in guardia:

fare storia del tempo presente presuppone indagare, scavare e riprodurre frammenti di vita quotidiana dei testimoni, ma “le persone non sono libri, non si possono studiare come libri, non si possono nemmeno mettere nei libri”.

Questo apparente paradosso mette il dito su una piaga che, in qualche modo, è parte stessa del mestiere di storico, evidenziando uno dei tanti limiti che appaiono al momento di voler ricostruire la storia del tempo presente.

Gli studi sulla memoria che hanno avuto un exploit a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, ci hanno insegnato che il passato è un terreno che si muove sotto i nostri piedi. Sta nel rapporto dialettico, vivo e in continua definizione tra presente e passato, una pista fondamentale per intravedere quanto di vecchio non è ancora morto e di nuovo non è ancora nato. Difficilmente potrebbe essere altrimenti. Se la storia si traducesse nella mera ricostruzione di un passato privo di passioni, di rimandi al nostro presente, sarebbe antiquariato, lingua morta.

La cronaca degli ultimi anni ci ha indicato che spesso

il passato è la tela sulla quale proiettare le speranze del futuro,

che fatti che sembravano oramai archiviati si possono tornare a discutere – così come le collocazioni di monumenti e i nomi delle strade – e che movimenti sociali che lottano contro la discriminazione, le sopraffazioni degli uomini sulle donne, o le ingiustizie attingono a piene mani da quel pozzo senza fondo di esperienze umane che è la storia. Queste considerazioni sono valide per molte vicende, ma mi sembrano particolarmente stringenti per l’oggetto di questo intervento, ovvero per abbozzare una riflessione sui cinquant’anni del colpo di Stato dell’11 settembre 1973, ma soprattutto sul significato che esso ha assunto nel Cile recente.

Il colpo di Stato in Cile

Parto da questa constatazione: probabilmente nessun evento latino-americano ha avuto così tanta trascendenza a livello globale come il golpe dell’11 settembre. Ne sono testimonianza l’enorme quantità di interventi, saggi e riflessioni che appariranno in settembre e nei mesi a seguire.

Gli attori e le circostanze di questa vicenda sono conosciuti, sono a tratti pop: Salvador Allende, primo socialista arrivato alla Moneda nel ‘70, Augusto Pinochet, lo schivo militare che avrebbe governato il paese andino col pungo di ferro, Richard Nixon e la Cia che fin dall’elezione di Allende lavorarono per un suo rovesciamento. Sono tristemente note anche le cronache dell’Estado nacional, un vero e proprio lager attivo nei primi mesi del golpe, la fine di Victor Jara e il lungo esilio degli Inti-Illimani.

I sostenitori di Salvador Allende marciano nella capitale Santiago a sostegno della sua candidatura a Presidente del Cile, 5 settembre 1964.

Gli anni della Unidad Popular hanno rappresentato per le sinistre una speranza: la possibilità di coniugare democrazia e socialismo, ma anche un serio monito: senza un’alleanza ampia tra tutti i partiti democratici e di massa il rischio che le forze reazionarie si alzassero contro la democrazia.

L’11 settembre ‘73 è stato anche una fonte di ispirazione per i movimenti neofascisti e autoritari di mezzo mondo – dal Movimento sociale italiano, passando per i colonnelli greci, ai militari argentini – che si opponevano ancora all’idea dell’uguaglianza tra tutte le donne e gli uomini del mondo. Da dove lo si guardi, il piccolo paese sudamericano ha contribuito a forgiare immaginari e influenzare le dinamiche politiche globali dei “lunghi” anni Settanta.

Eppure, possiamo riconoscere con una certa sicurezza che i fatti del Cile sono consegnati a un passato apparentemente concluso, un nostalgico e ingiallito ritaglio di giornale dimenticato in un cassetto, un vinile di improbabili cantautori andini, la foto di una festa dell’Unità “in solidarietà col popolo cileno”, come si diceva allora.

Colpo di Stato in Cile: Novecento archiviato

La domanda che sorge, specie in occasione di un anniversario come il cinquantesimo, è quasi scontata:

tutto l’inchiostro versato, le energie riposte, il poderoso processo di solidarietà internazionale e le analisi politiche sul senso di quel golpe appartengono a un Novecento concluso e archiviato?

Mi sento di rispondere affermativamente, pur con qualche riserva, se consideriamo unicamente il punto di vista italiano o europeo. Se, viceversa, prendiamo in considerazione il Cile e l’America latina degli ultimi anni, la prospettiva si ribalta.

Tra il 2019 e il 2020 nelle principali città del Cile, diversi movimenti sociali hanno animato una vivissima protesta di piazza, poi ribattezzata estallido social, che ha mandato a soqquadro quella che da molti, forse un po’ tronfiamente, veniva definita l’oasi dell’America latina, un’oasi di stabilità economica e crescita in un continente “sregolato”.

Proteste in Cile 2019, Santiago del Cile.

Cominciata come una protesta per l’aumento del costo del prezzo del biglietto della metropolitana, la rivolta di giovani, di donne e di tutta quella galassia di esclusi dal sistema neoliberista, ha da subito identificato nel passato traumatico del Cile l’origine di quei mali così radicati. In uno striscione portato in corteo nell’ottobre del ‘19 si poteva leggere “no son 30 pesos, son 30 años”.

Il passato del Cile, il modello di paese pensato e imposto da Pinochet e dai Chicago boys, la transizione dalla dittatura alla democrazia contraddistinta da una generale impunità erano carboni che molti consideravano del tutto spenti.

Invece, le piazze di Santiago, Valparaíso e di altre grandi città hanno messo in discussione quel “passato presente” cercando di dare profondità storica al diffuso malessere neoliberista. Anche l’immotivata e cruenta repressione, quella culminata in decine di morti e di accecati dalle pallottole di gomma dei Carabineros ha messo a nudo le continuità esistenti negli apparati polizieschi dello Stato sudamericano.

Gli esiti dell’estallido

Nelle settimane di protesta, che si sono concluse in qualche modo con l’elezione come presidente di un candidato di sinistra come Gabriel Boric (dicembre 2021) e di una Assemblea costituente per redigere una nuova Costituzione, il passato recente del Cile ha articolato l’azione politica. In molti, anche un po’ ingenuamente, hanno pensato che gli scontri in piazza e le proteste avrebbero potuto cancellare i lunghi effetti del pinochetismo – dall’acqua bene privato alle pensioni in mano ad assicurazioni prive di scrupoli – immaginandolo come una riedizione della Unidad Popular.

Gli esiti dell’estallido sono stati decisamente più modesti. Dopo la bocciatura della Costituzione in un referendum popolare (settembre ‘22) le speranze di molti si sono spente. Eppure, l’estemporanea finestra della protesta popolare è stata uno spazio di sperimentazione, non esente da errori e ingenuità, di una società che è tornata a parlare del proprio passato. Non c’è stato probabilmente un momento come questo nel Cile recente, uno spazio dialogico durante il quale si è voluto e potuto tornare ad ascoltare storie di un passato dai più rimosso.

Progetto di Costituzione

I movimenti di base, da quelli di sinistra a quelli più qualunquisti finendo fino alle destre si sono abbeverati alla fonte del passato. Sul banco degli accusati è stata messa a sedere la storia nazionale, la “historia oficial”, quella che per troppi anni ha raccontato di un paese bianco, che ha invisibilizzato il ruolo delle donne e delle popolazioni mapuche. La piazza ha adottato la bandiera mapuche in antagonismo con quella nazionale, simbolo dell’oppressione e della quotidianità vissuta dai cileni.

Anche il progetto di una nuova Costituzione ha ricalcato questa dinamica e doveva, secondo i suoi promotori “cancellare la Costituzione di Pinochet”, mentre, secondo i suoi detrattori avrebbe “consegnato il Cile al socialismo di Allende”. Pur accettando che spesso le parole in politica non sono soppesate è stato quantomeno sorprendente assistere a un tale processo di esumazione di personaggi e vicende che – molti ci avrebbero messo la mano sul fuoco fino a qualche tempo prima – sembravano consegnati a noi storici e storiche.

Una riflessione collettiva

Credo che vi sia un’ultima riflessione che a cinquant’anni dal colpo di Stato sia inevitabile e non si dirige, se non di riflesso, al ‘73, ma al 2023, agli anni che seguiranno. Dall’inizio della pandemia del Covid-19 si è ampiamente dilatato l’uso e l’abuso del passato da parte di movimenti e leader politici emergenti.

L’estallido social ha fatto traboccare, forse anche involontariamente, il desiderio di una riflessione collettiva sul passato recente fuori dai consueti luoghi deputati a discutere di storia – università, accademie e giornali – determinando una riscoperta degli anni di Allende, della repressione di Pinochet e via discorrendo.

Allo stesso tempo, però, questo rinnovato interesse è stato capitalizzato e sfruttato con maggiore abilità da una serie di movimenti politici e leader più o meno improvvisati ascrivibili al mondo delle “nuove” destre. José Antonio Kast, secondo classificato nella corsa alla presidenza del 2021, esponente del Partido republicano, difensore del regime di Pinochet insiste sull’idea che Allende “volesse istaurare una dittatura comunista in Cile” e che il “politicamente corretto” e la prospettiva di genere siano manifestazioni di una “malattia ideologica” ascrivibile al marxismo internazionale.

José Antonio Kast, secondo classificato nella corsa alla presidenza del 2021, esponente del Partido republicano

Guardando all’America meridionale, da quello che è stato il Brasile di Bolsonaro, ma non mancherebbero riferimenti in Argentina o altri paesi, ho l’impressione che questa rilettura del passato stia contribuendo a rinforzare opzioni politiche che, fino a qualche tempo fa, apparivano del tutto insignificanti.

Viene da chiedersi come sia possibile che, dopo cinquant’anni, si assista a una riedizione di una così rudimentale, eppure, così efficace propaganda politica che, parafrasando un best-seller della nuova destra armata di bot e hater su Twitter in occasione di questo cinquantesimo insiste sull’idea di una “dictadura comunista de Salvador Allende”.

Questo è un problema che ci riguarda da vicino, oggi, che ci scuote fino al midollo e che non solamente mette in discussione l’idea di convivenza in società, ma anche l’illusione che questa pagina di storia fosse oramai consegnata agli annali.

Il negazionismo rabbioso e aggressivo di chi mette assieme Allende e il femminismo, l’Unidad Popular e il diritto dei privati di estrarre litio o privatizzare l’acqua è ben lontano dall’essere sconfitto, così come lo sono le tentazioni di umanizzare il colonialismo italiano o il franchismo spagnolo.

Come afferma lo storico Pablo Stefanoni, il ribellismo è divenuto appannaggio delle destre. Mi sento di aggiungere che anche il passato è entrato nella loro orbita e sia come storico che come cittadino questo mi preoccupa.

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