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Chi paga il prezzo del Black Friday?


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“Colpo di scena! Il Prime Day di ottobre è già in arrivo”; “Le 50 offerte da non perdere su Prime”; “Clicca e ricevi in poche ore a casa tua”.

C’è un World Day per celebrare ormai qualsiasi cosa, e probabilmente tra qualche anno avremo un giorno del calendario dedicato alla nascita di Chat GPT; perciò, non dobbiamo sorprenderci se Amazon inaugura l’autunno con una festa turbocapitalista.

Qualche tempo fa l’Atlantic ci metteva in guardia da questo tipo di liturgia: Elleen Cushing si immaginava di spiegare a un alieno perché mai una piattaforma dovesse fare il compleanno. L’invenzione, scriveva Cushing, aveva qualcosa di distopico: un prodotto il cui unico purpose è farti comprare altri prodotti, distraendoti dalle attività ordinarie per farti sentire, a ogni consegna, un po’ più speciale.

Il “rullo edonico”

La trappola è quella che Brickman e Campbell nel 1971 chiamarono hedonic treadmill, il “rullo edonico”: come se fossimo sul tapis roulant dello shopping, aumentiamo la velocità d’acquisto, ma la soddisfazione dei nuovi beni di consumo diminuisce a ogni addizione, e allora click dopo click proviamo a risentire quella scarica di adrenalina. Amazon Prime riesce a sopperire un po’ a quel calo dopaminico perché non ci sono frizioni nell’acquisto, non c’è tempo di attesa prima dell’ordine che con la transazione digitale ci appare persino un gratuito atto di libertà.

Ma il free shipping non è mai davvero gratuito: leggendo Jake Alimahomed-Wilson ed Ellen Reese, in The Cost of Free Shipping: Amazon in the Global Economy, capiamo che semplicemente il prezzo lo paga qualcun altro, ed è reso oscuro e invisibile.

Che cosa significano giorni come il Black Friday o l’Amazon Prime Day per i lavoratori del settore? Come si organizza l’azione collettiva in tutela di questi diritti?

Algocrazia

I sindacati sono collassati e non hanno retto l’urto della storia: è sempre più difficile percepirsi come lavoratori dentro una classe, o una categoria di pari, perché la globalizzazione e la digitalizzazione hanno reso la competizione feroce e i lavoratori interscambiabili, e perché ognuno si confronta con uno schermo nell’affrontare la propria vita lavorativa.

Se a definire gli andamenti della Gig Platform Economy sono gli algoritmi, è più probabile che saremo esposti a disparità di reddito, a precarietà dei contratti e abusi nella distribuzione parcellizzata dei compiti, per esempio in occasione di giornate come il Prime Day.

L’unico baluardo contro l’algocrazia, parola riconosciuta dall’Accademia della Crusca per riferirsi a società organizzate in base al funzionamento dell’algoritmo, è l’intervento legislativo che sotto il governo Meloni, ha denunciato la CGIL, ha fatto passi indietro nel campo della trasparenza del funzionamento algoritmico.

Oppure, possiamo affidarci agli emergenti sindacati come NIdiL CGIL (Nuove Identità Lavorative), impegnati nel disciplinamento giuridico di piattaforme di food delivery come Glovo dentro un quadro di platform cooperativism, come lo chiama Trebor Scholz, fondatore del Platform Cooperative Consortium.

Lavoro come algoritmo

L’algoritmo della performance, che accomuna i magazzinieri di Amazon ai fattorini di una app come Deliveroo, è però indotto anche dalla nostra velocità di acquisto e serve a legittimare una preoccupante cultura manageriale. Nella formazione dei top manager o dei CEOs ricorre l’idea spietatamente darwiniana che se i dipendenti lamentano un certo affaticamento si deve rispondere con un’integrazione del livello di complessità (leggi: del carico di lavoro) affinché possano implementare forme adattive e sviluppare nuove competenze. La narrazione del time management è il sottosopra prospettico dell’hedonic treadmill: più corriamo, perché più diventiamo bravi a correre, più aumentiamo la rapidità a cui va il rullo.

Stiamo quindi trattando progressivamente i lavoratori come facciamo con gli algoritmi, che più macinano chilometri di dati più affinano una capacità di accumulazione di capitale intangibile che rende i processi più efficienti (quindi più profittevoli) per i colossi come Amazon. Purtroppo, senza che di questo possano beneficiare né i fornitori né i dipendenti, a causa di un’internalizzazione totale di questo guadagno di efficienza.

Ma noi non siamo capitale che ringiovanisce: per questo, la prossima volta che riempiamo il carrello durante il Prime Day, siamo cauti e ricordiamoci che i lavoratori non possono fare aggiornamenti back-end.

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