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Il partito che si fa fortezza


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C’è un breve racconto di Kafka che racconta molto del rapporto inquieto che ciascuno nella sua individualità, le comunità di fede (religiosa, politica…), le società complesse e le culture politiche hanno con la memoria delle proprie azioni. Si intitola Prometeo. Lo riporto qui.

Di Prometeo trattano quattro leggende.

Secondo la prima egli fu inchiodato al Caucaso, perché aveva tradito gli dèi a vantaggio degli uomini, e gli dèi man­davano aquile a divorargli il fegato sempre ricrescente.

La seconda vuole che Prometeo, per il dolore procu­ratogli dai colpi di becco, si sia addossato sempre più alla roccia fino a diventare con essa una cosa sola.

La terza asserisce che nei millenni il suo tradimento fu dimenticato; tutti dimenticarono: gli dèi, le aquile, egli stesso.

Secondo la quarta ci si stancò di lui che non aveva più motivo di essere. Gli dèi si stancarono, la ferita – stan­ca si chiuse.

Rimase l’inspiegabile montagna rocciosa. La leggen­da tenta di spiegare l’inspiegabile. Siccome proviene da un fondo di verità, deve terminare nell’inspiegabile.

Vale la pena, credo, tenere questo racconto sul tavolo quando torniamo a riaprire, a cento anni distanza, il dossier – non tanto su ciò che accadde a Kronstadt nel marzo 1921 – ma su come, anche da quell’episodio, si origini un modo di essere partito politico nel Novecento che ancora ci riguarda da vicino.

Evento a lungo soffocato a fronte dell’anniversario della Comune di Parigi (allora era il cinquantesimo), perché i gruppi politici preferiscono sempre fare i conti o con le proprie sconfitte – quando è l’avversario l’attore che reprime –, o con le vittorie di giustizia, mai quando i conti sono da fare con la propria violenza (a meno che la violenza e la festa intorno al corpo del nemico ucciso non sia parte del proprio modo di autocelebrarsi e dunque rivendicata come edificante ed esemplare della propria identità). Kronstadt, in ogni caso, è stato un non-luogo della riflessione in coloro che vi intravedono la «manifestazione finalmente rivelata» dell’essenza della Rivoluzione d’ottobre, la fine del processo di restaurazione e di dittatura; una convinzione che in forme diverse coinvolge le opposizioni socialiste, le opposizioni libertarie – che di quella rivolta furono indubbiamente l’anima politica – e gli avversari politici liberal-democratici.

Diversamente, i fautori del principio imperiale della Russia guardavano a quell’episodio come l’aspetto sanguinario dell’azione del proprio avversario e di cui potevano anche riconoscere un tratto significativo della loro identità cultural-politica.

In fondo, Kronstadt apparteneva a quella lunga filiera di repressioni contro l’insorgenza contadina di cui la storia russa era stata costellata tra XVII e XIX secolo.

Si potrebbe anche osservare come tra i sostenitori dei rivoltosi di Kronstadt l’idea di società politica e di pluralismo delle idee e delle convinzioni non fosse simmetricamente opposta a quella propria dei bolscevichi e dunque ci fosse una visione non plurale delle identità culturali da garantire nel sistema politico. Come a dire: anche tra coloro che poi si fanno difensori della rivolta, o che dichiarano di comprendere le ragioni della rivolta, non è dominante una visione plurale della società che si propongono di governare.

Kronstadt non fu il primo episodio dello stalinismo, ma uno degli episodi di consolidamento del processo rivoluzionario che tutte le componenti politiche che di fronte all’ascesa di Stalin furono perseguitate, espulse, uccise (Trockij per primo), difesero come atto necessario. Rimetterlo in discussione, come per esempio farà Victor Serge negli anni Trenta, voleva dire rompere con i propri amici. Voleva dire affrontare da soli un percorso di rifondazione di una politica.

Ma in che cosa consisteva concretamente quel percorso di ricostruzione? Propongo due modelli. Come vedremo, nessuno dei due ci propone una salvezza.


Primo modulo.

Intorno alla vicenda di Kronstadt (febbraio – marzo 1921) si sono create due dimensioni opposte: da una parte coloro che difendono la repressione dall’altra coloro che gridano al tradimento della rivoluzione.

Nella prima ipotesi il tema consiste nella convinzione che un processo rivoluzionario, a un certo punto, debba essere concluso, e cioè definire un punto oltre il quale il processo stesso entra in crisi e fallisce.

In tutte le rivoluzioni – sostengono coloro che difendono questa visione – arriva un momento in cui è necessario tirare le somme e verificare ciò che è fattibile e ciò che non lo è; in quel momento alcuni ideali o sogni dovranno essere necessariamente sacrificati per garantire la sopravvivenza del nuovo ordine.


kronstadt


Al lato opposto si collocano coloro che intravedono in quella congiuntura l’abbandono degli ideali rivoluzionari dell’inizio e dunque valutano la svolta come il “tradimento della rivoluzione”. In questa visione, la dimensione è quella per cui sono sempre leali, spinti a trionfare a dispetto delle componenti estreme che peccano di idealismo o che chiedono l’impossibile. In questo senso la vittoria dei moderati si propone come l’affermazione del “realismo politico”.

Kronstadt, dunque, non sarebbe altro che la conferma di una regola. Una regola che riguarda tutti i processi rivoluzionari, dalla prima rivoluzione inglese a oggi. Un aspetto su cui, peraltro, insiste anche Benedetto Croce, quando nel saggio su Il Marchese di Vico Galeazzo Caracciolo –  che compone nei mesi della crisi conclusiva di Weimar (tra ottobre 1932 inizio 1933 e che pubblica a puntate su «La Critica» in quello stesso anno e poi ricompreso nel suo Vite di avventure, di fede e di passione – riflette sulla decisione presa da Calvino di mandare al rogo Michele Serveto.

Scrive Croce: “Il rogo del Servet (bisogna riconoscere ciò come un fatto) riscosse l’approvazione dei maggiori uomini della Riforma, di quanti avevano il sentimento della responsabilità”.

In quella pagina a lungo Croce si interroga su chi fossero quei figli eterodossi, su quanta libertà, quella che auspicavano per sé, erano disposti a concedere. Ma resta il fatto che quella macchina legittima la decisione di mandare al rogo Michele Serveto.

Si potrebbe osservare come questa decisione possa essere intesa come un tradimento della “rivoluzione” calvinista che aveva come principio la libertà di coscienza e di interpretazione delle sacre scritture da parte del credente.

Tuttavia, Croce osserva come questo tradimento sia un passo necessario per stabilizzare le conquiste culturali del calvinismo. Questo perché la legittimazione di ulteriori posizioni, come appunto il pensiero di Serveto, avrebbe comportato il rischio di una frantumazione del calvinismo nella sua fase iniziale.

Se osserviamo la congiuntura politica in cui si muove Lenin, nel momento in cui si tratta di ridiscutere il modello del “comunismo di guerra” e di passare alla NEP (Nuova politica economica), la decisione di stroncare la rivolta a Kronstadt dichiara che lo scontro non è tra moderati e rivoluzionari, ma tra realisti e idealisti.

È un modo per dire che, alla fine, è il realismo politico a trionfare se si vuole salvare il “nocciolo duro” di qualcosa. Ma cosa, concretamente, distanzia Benedetto Croce da Lenin?

E tuttavia quel processo, se così fosse, avrebbe almeno dovuto accompagnarsi a una riflessione – appunto – sulla violenza, sulla ferita aperta. Se invece la riflessione, per riprendere l’immagine di Prometeo proposta da Kafka, si configura come “eclisse della ferita”, come la richiusura senza segno (senza tracce di cicatrice), Günter Grass direbbe “senza gobba”, allora vuol dire che uno dei significati profondi di Kronstadt rimane sottotraccia e che per fare i conti con quella scena occorre prendere in carica un’altra cosa e proporre una considerazione diversa.

Secondo modulo

All’origine dello scontro e poi della repressione che ha luogo a Kronstadt sta l’idea che chiunque attenti al processo rivoluzionario sia un avversario della rivoluzione stessa. Questo perché si è prodotta una dimensione nel tempo di tipo “giusnaturalistico” tale per cui se tu ti rappresenti come sinistra il tuo interlocutore critico che si dichiara allo stesso tempo di sinistra non può che essere un “destro mascherato” (o, diversamente: uno oggettivamente di destra).

La vicenda di Kronstadt, prima ancora di essere definita dalla repressione, indica una mentalità molto diffusa a sinistra, ossia che se non si sopportano le minoranze, le eresie politiche – in generale quei processi di riflessione e di proposta politica che obbligano a ripensare le proprie scelte e pongono di fronte all’azione e alla riflessione di una ipotesi diversa –, la risposta sia classificare quella componete come “antrivoluzionaria” e perciò da punire e da sanzionare.

Il tema, intorno al centenario di Kronstadt, non è solo la trasformazione che quell’evento segna nel processo di costruzione dell’esperienza di “socialismo reale”, ma anche che cosa significa (e non solo cosa inaugura) nel rapporto tra dirigenti e diretti, tra partito politico che governa e militanti politici, tra avanguardie e potere. Un tema su cui, con impianti diversi, forse anche opposti ma con identica inquietudine, si sono misurati da una parte Massimo De Angelis e dall’altra Marco Revelli facendo i conti con “ciò che restava” dell’esperienza comunista del Novecento.

Uno dei significati, secondo noi, di quell’episodio, per molti aspetti “spartiacque”, è il fatto che segni il consolidarsi di un percorso che dice a chi non ci sta: “Non sei d’accordo con noi? Allora sei un nemico. Non solo: noi decidiamo lo stesso di andare contro di te e non teniamo conto della tua opinione. Non ci vuoi stare? Puoi farti da parte. Non vuoi farti da parte? Allora sarai punito per questo. Cerchi di organizzarti? Noi lo impediremo e ti toglieremo il diritto di parola”.

Un percorso che non è solo nella struttura del partito di quadri, come si prefigura nell’ipotesi del partito leninista, ma che caratterizza anche la struttura stessa di essere partito di massa nella storia sociale e culturale del XX secolo di tutti i sistemi politici.

Un percorso fatto in nome dell’emancipazione e del riscatto diventa nel tempo un percorso di esclusione, marginalizzazione e “tradimento” delle voci dissidenti – magari proprio quelle stesse voci che in origine proponevi di rappresentare e tutelare, fino a trasformare un partito in una fortezza. In una macchina politica “senza porte né finestre” vocata a viversi come una setta di cui la politica che sta in basso – quel proliferare di voci che divergono, con identità e bisogni vivi e in trasformazione – avverte tutta l’estraneità.

Un processo che nel corso del Novecento si è ripetuto molte volte, e che a sinistra ha iniziato a essere imbarazzante solo con le scene del 1956 a Budapest. Fino ad allora opporsi dentro i Paesi del socialismo – o all’interno delle sinistre europee – voleva dire essere indicati come traditori, trovandosi soli, senza trovare una solidarietà e un appoggio.

Effetto che predispone verso tre strade: una strada di opposizione per una riformazione di un nuovo profilo; l’abbandono e il passaggio dall’altra parte; oppure il ritiro, la delusione che si trasforma in disillusione.

A quella disillusione fino a divenire collera, forse più che un libro ha dato forma iconica un film; meglio ancora: un monologo di un film. È ciò che Juan Miranda (Rod Steiger) con voce alterata dice a Sean Mallory (James Coburn) in Giù la testa (lo si può ascoltare e vedere qui).

Delle tre strade le prime due sono state spesso oggetto di ricerca o di sensibilità, meno attenzione ha avuto la terza. Sui temi e sulle inquietudini di questa terza parte scrive qui Emma Fattorini e dunque non entro su questo terreno.


kronstadt attack


Ciò che mi preme sottolineare è che prestare attenzione a quella terza strada significa anche tornare laicamente a riflettere sulla trasformazione e la metamorfosi della forma partito negli ultimi trenta anni che ancora una volta mi sembra calata in due modelli distinti, entrambi fallimentari e scarsamente motivanti con cui dobbiamo materialmente fare i conti ora.

Primo modello: la partecipazione assente. È la metamorfosi dei partiti una volta di massa e che ora sono nei fatti dei circoli per aficionados (volenti, nolenti, malmostosi, poco importa). Si vivono direttamente o indirettamente come metamorfosi dei partiti macchina della Prima repubblica, ma non hanno la capacità mobilitante di quelli. Il Pd è forse la rappresentazione iconica più evidente di questa condizione.

Secondo modello: il partito setta, più spesso sotto le mentite spoglie dell’antipartito. M5S non è che l’ultima versione del partito “degli estranei” al sistema. Prima di M5S erano i militanti della Lega, prima ancora in parte la prima delegazione dei Verdi eletti in Parlamento, prima ancora era nello stile della prima squadra del Partito radicale.

Il partito setta si basa su poche regole che riguardano il comportamento dei rappresentanti. In breve:

  1. i rappresentanti del partito hanno una forte componente etica fondata sulla dichiarazione altisonante della lor non “ibridazione” con la politica (nel loro linguaggio una cosa “sporca”);
  2. quegli stessi rappresentanti fanno vita ritirata e non si confondono con la massa dei professionisti della politica (loro ovviamente non sono dei professionisti della politica, ma sono solo dei cittadini “in missione per conto del popolo”);
  3. se quei rappresentanti accennano ad avvicinarsi ad altri, rischiano l’espulsione dal gruppo per contaminazione. In alternativa sono sanciti con una multa. La loro aspirazione massima, quando appunto sono “in missione per conto di Dio” è la redenzione della politica dai partiti con la forza dell’esempio. Il che appunti rafforza il loro codice settario fino a trasformarlo in fondamentalismo politico;
  4. i rappresentanti rispondono al popolo ogni giorno ed ogni ora (diciamo che questo è parte del linguaggio retorico o meglio il loro messaggio spot).

Da qualsiasi lato la si prenda, la politica attraverso queste due figure alla fine appare come un luogo e un’esperienza decisamente non accattivante.

Da che cosa deriva? Solo dalla crisi di tangentopoli? Forse. Ma che la politica avesse dei costi lo sapevamo tutti e ritenere che questo sia solo l’effetto della delusione o del disincanto è poco credibile.

Penso, invece, che quel disincanto, sia conseguente soprattutto (e non unicamente né esclusivamente) al fatto che la politica e le macchine della politica hanno smesso di raccontare futuro o di presentarsi per trasformare il presente in futuro auspicabile, diventando solo amministratori dell’esistente.

Non che in precedenza quella loro struttura e quella loro funzione fossero prive di difetti o di anomalie, anzi. Quei difetti e quelle anomalie erano presenti e attive dal molto tempo. Per esser più precisi, dal momento in cui il partito diventa una macchina amministrativa pubblica che non consente discussioni interne e che punisce i dissenzienti.

Krontsadt è stata senza dubbio una tappa essenziale in questo percorso e in questo processo di metamorfosi.

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