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La diplomazia del pingpong


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Nel 2006 veniva pubblicato in Russia il libro di Vladislav Surkov La nazionalizzazione del futuro (2006). Un libro importante per due motivi: 1) perché condensava la nuova strategia politica della classe dirigente russa con l’elaborazione del concetto di “democrazia sovrana”; 2) perché la tesi della “democrazia sovrana” rappresentava la risposta di Mosca alla pericolosa combinazione di pressione populista dal basso e pressione internazionale dall’alto che distrusse il regime di Kučma in Ucraina (il libro era stato scritto da Surkov subito dopo la rivoluzione arancione del 2004-2005). Ed era anche la risposta alla dottrina statunitense dell’esportazione della democrazia.

La Conferenza sulla sicurezza di Monaco (2007) segnò poi, di fatto, un punto di svolta nelle relazioni tra il blocco atlantico e la Russia, poiché quest’ultima si dissociò dall’idea occidentale di un mondo unipolare proponendo alternativamente un ordine multipolare, in cui ogni Stato, nel rispetto reciproco, fosse stato libero di scegliere il proprio percorso politico in modo del tutto sovrano e indipendente.

Il processo d’integrazione europea degli anni Duemila, accompagnato ad un allargamento della sfera d’influenza della NATO, in larga parte nell’Est Europa, e la collocazione dagli anni Novanta di dispositivi bellici in tutta una serie di Stati considerati dai russi come il “vicino esteroˮ, furono visti dalla Russia come una strategia di accerchiamento messa in atto dalla NATO, tale da minare la sua capacità difensiva con l’indebita ingerenza nella sua “naturale” sfera d’influenza. Comportamenti russofobi diffusi in Paesi come la Polonia e i Paesi Baltici avevano, inoltre, contribuito ad allontanare la Russia dall’Occidente, sebbene il presidente Putin nei suoi due primi anni di mandato presidenziale (2000-2002), pur allontanandosi dall’obiettivo del suo predecessore (El’cin) d’integrare la Russia nel blocco liberale occidentale, avesse tentato di aprire un canale di dialogo con l’Ovest. Le rivoluzioni colorate, prima in Georgia nel 2003 e poi in Ucraina nel 2004 (eterodirette dagli USA), insieme alla guerra in Iraq del 2003 e al conflitto militare russo-georgiano del 2008 (consumato nello spazio ex sovietico), avevano spinto la Russia ad invertire la rotta nelle sue relazioni con il mondo occidentale, muovendola da un lato a ripudiare l’ordine egemonico americano sullo scacchiere internazionale come fattore di destabilizzazione regionale e globale, e dall’altro orientandola su posizioni di forte arroccamento interno.

L’applicazione della formula della “democrazia sovrana” come prassi politica significò il rafforzamento del potere centrale con l’introduzione della “verticale esecutiva del potere”. Ovviamente, addebitare all’Occidente la responsabilità dell’evoluzione della Russia verso un regime autoritario è una semplificazione.

La svolta centralistica impressa da Putin fu dettata innanzitutto dalla necessità di spezzare il legame tra i governatori regionali e le clientele mafiose che si erano originate con le liberalizzazioni dell’era El’cin. Quella svolta aveva portato nel tempo all’instaurazione di un sistema di rapporti di potere imperniato su una presidenza forte e istituzioni deboli.

La crisi politica tra Russia e Occidente ha conosciuto il suo culmine nel 2014 con la rivoluzione ucraina di Euromaidan, cui è seguita l’annessione della Crimea alla Russia e l’autoproclamazione d’indipendenza di due repubbliche del Donbass (Donec’k e Luhans’k). Dopo la riunificazione della Crimea alla Russia, il concetto di democrazia sovrana è stato inglobato in quello più ampio di Russia come “Stato-civiltà”. In un suo intervento al Club Valdaj (2013) Putin aveva sostenuto: «Proprio dal concetto di Stato-civiltà derivano le particolarità del nostro assetto statale». E nel 2014 il presidente nel suo discorso annuale all’Assemblea federale russa aveva definito la Crimea, riunita alla Russia, come la “fonte spirituale della nazione russa”. Il concetto russo di Stato-civiltà è il paradigma di sviluppo della civiltà panrussa (il Russkij Mir), il cui fine è l’uscita da una condizione di anomia (in cui era caduta la Russia di El’cin), attraverso la messa al centro di un sistema di valori e imperativi che distinguano questa civiltà da quella occidentale. È un modello di civilizzazione che tiene conto dell’assetto multietnico e multireligioso della Russia. Perno di coesistenza delle diverse sensibilità è la cristianità ortodossa che rappresenta l’origine dell’identità della Russia, della sua forza e della sua importanza storica. La civiltà panrussa non oscura la cultura, le tradizioni, la religione e i sacri valori della famiglia tradizionale. Principi che sono stati da sempre perseguiti dall’ortodossia russa e da altre religioni tradizionali del Paese.

Il crollo dell’Urss è stato definito da Putin una “catastrofe geopolitica epocale”, che ha avuto come conseguenza la perdita dell’identità nazionale.

Per questo, Putin si è impegnato nella costruzione di una memoria nazionale tesa a dare continuità alla storia russa, legando, attraverso il recupero dell’ortodossia, la Russia odierna a quella zarista, ma facendo propria anche l’idea di potenza e faro di civiltà dell’Urss che, grazie a Stalin, sconfisse la Germania nazista durante la grande guerra patriottica.

Per la costruzione della memoria nazionale sono stati richiamati importanti personaggi della storia russa, tra cui figura P. Stolypin che incardina perfettamente la volontà del presidente russo di coniugare la modernizzazione del Paese con un’idea di potenza (Stato autoritario, efficiente esercito militare). I pilastri costanti richiamati da Putin sono deržavnost’ (grande potenza) e gosudarstvenničestvo (Stato forte), il cui combinato è l’idea che la Russia sia destinata ad essere una grande potenza globale se incentrata su uno Stato forte. È l’ideologia mistica di potenza come destino caldeggiata dal filosofo russo I. Il’in (un nazionalista di destra vissuto in esilio nel Terzo Reich perché sostenitore dell’Armata bianca), tramutata da Putin in ideologia politica di Stato, alimentata a sua volta dalla riproposizione del mito “Mosca terza Roma” aspirante alla costruzione di un Impero in opposizione all’Occidente.

L’approccio russo di Stato-civiltà non propone solo una visione pluralistica della storia umana, ma anche una visione multipolare delle relazioni internazionali, che si è consolidata dopo il successo della Russia in Siria e il rafforzamento della sua presenza politico-militare in Medio Oriente e nel Mediterraneo. Il Club di Izborsk è il think-tank moscovita che oggi sostiene questo approccio. A. Dugin, membro del Club di Izborsk, cofondatore del partito nazional-bolscevico, fautore dell’euroasiatismo e della rinascita dei sentimenti imperiali russi, è la mente dietro cui vi sarebbe stata la decisione di aggredire militarmente l’Ucraina. Dugin, sostenuto in patria dai Fronti nazional-patriottici, riprende ricorrentemente nei suoi discorsi temi quali Terra e mare (titolo di uno scritto di Carl Schmitt). La “spazialità” è una dimensione imprescindibile per la politica che per la Russia significa la capacità di tutelare la propria area di influenza nello spazio post-sovietico, anche con le armi. Altro personaggio chiave, guardando alla vicenda ucraina, a cui Putin attribuisce i successi della Russia in Siria, è il generale Sergej Šojgu, ministro della Difesa, irritato dall’eccesso di equipaggiamento militare straniero di cui si è dotata l’Ucraina (fornitura di armi e dislocamento di basi militari) dall’insediamento di Biden come presidente degli USA. Fedele a Putin è pure la Chiesa ortodossa, cui è stato attribuito dal Cremlino un ruolo speciale nella vita pubblica russa. Il patriarca Kirill ha affermato che la guerra in Ucraina è la lotta alle lobby gay promotrici di modelli di vita peccaminosi contrari alla tradizione cristiana. Per questo è una guerra “giusta”. Sul fronte politico, i partiti tradizionali che hanno appoggiato la scelta militare sono: il partito comunista patriottico di Zjuganov, quello nazionalista e fortemente antioccidentalista di Žirinovskij, e il partito Russia Unita, i cui riferimenti di cultura politica sono quelli di Putin. Contrari i movimenti liberal antisistema, con in testa quello di Naval’nyj.

Il conflitto russo-ucraino ha risvolti geopolitici e storico-culturali. Recentemente Putin ha sostenuto che “russi e ucraini sono uno stesso popolo con radici comuni, e il sentimento nazionale coltivato a Kiev è una falsificazione storicaˮ, poiché l’Ucraina è stata artificialmente creata da Lenin, strappando alla Russia territori che le appartenevano.

L’unità dei popoli slavi troverebbe le sue radici nell’antica Rus’ che mille anni fa teneva insieme, nella regione di Kiev, russi, ucraini e bielorussi, con un’unica lingua e una stessa fede ortodossa. È la narrazione del filosofo Il’in, per il quale “dovere patriottico dei russi è proteggere i piccoli fratelli (ucraini e bielorussi) che insieme ai fratelli maggiori (i russi) sono parte di un unico destino storico e culturale”.

La guerra ha fortificato il revanscismo imperiale russo diffuso nei movimenti nazionali dell’estrema destra. Tuttavia, c’è un campo di questi movimenti che vorrebbe esportare la rivoluzione di Euromaidan a Mosca per rovesciare il regime di Putin accusato di non rappresentare la causa etno-nazionalista per la sua “benevolenza” verso i migranti del Caucaso o dell’Asia centrale. In Russia non esiste un solo nazionalismo ma è presente una vera e propria galassia nera e non sempre la convergenza con il Cremlino o l’opposizione a Putin segnano di per sé un discrimine tra chi è nazionalista o chi non lo è.


Foto di Katie Godowski da Pexels

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